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» Articoli - 20 giugno 2010 «

Volo di notte

Nell’ultimo quarto del Novecento, credo di essere stato uno dei maggiori “consumatori” d’aereo del nostro Paese. Come corrispondente di guerra del Giornale di Montanelli, viaggiavo sempre e rientravo solo per il ricambio delle valigie. Aerei civili, militari, ad elica, jet, supersonici, elicotteri. Nel Sahara ex spagnolo volai su un aereo militare da trasporto, a portellone aperto, conversando, nonostante il dolore alle orecchie, con il pilota marocchino, nero come il carbone, che mi parlava in dialetto milanese perché aveva imparato a pilotare in Brianza e aveva la morosa a Tradate.

A Salta, in Argentina, fui costretto ad interrompere un volo, dopo un atterraggio non previsto, perché sul mio bimotore viaggiava un grassone, pezzo grosso del narcotraffico. Nello Zaire fui coinvolto in un atterraggio di fortuna, di notte, sulla sabbia e mi ritrovai a camminare nel buio, con in braccio il bambino nero della mia vicina di posto… In Nicaragua entrai clandestinamente con un elicottero “a uovo” guidato da Trecentosettanta (nome in codice del capo della guerriglia Contra): due ore di volo radente sopra le cime degli alberi nella foresta amazzonica; scendemmo su una piattaforma di tronchi costruita sul fiume, presso gli accampamenti…

Al Polo Sud arrivai, presso la Base Marambio dell’Argentina, con un aereo militare che pattinava sul ghiaccio. Nel Ciad salii sul Puma del generale francese Massena e ne fui scaricato per ordine degli alti comandi che non permettevano ai giornalisti di raggiungere il fronte di Salal (ci arrivai con una jeep civile, unico giornalista presente).

Il viaggio più incredibile, tuttavia, fu quello grazie al quale raggiunsi Savimbi e i suoi guerriglieri nel sud dell’Angola. Era il settembre del 1985. Da Lisbona, il mio contatto mi fece sapere che ero atteso da una sua persona di fiducia a Kinshasa, nello Zaire, da dove sarei stato portato in volo fino al Cuando Cubango, quasi al confine col Sudafrica. Volo clandestino, ovviamente.

A Kinshasa, qualcuno mi portò su una pista d’atterraggio evidentemente dimessa. Quel che vidi non fu incoraggiate: nelle ultime luci del giorno mi apparve un Dakota del 1943 che prima di allora avevo visto solo nei film sulla Seconda Guerra Mondiale. Le sue lamiere luccicavano nella sera e il cavo d’acciaio era teso tra la carlinga e la coda. All’interno, due file di panchine metalliche correvano parallele lungo l’abitacolo. Sperai che non fosse previsto anche un lancio col paracadute, come ai tempi dello sbarco di Normandia. Partimmo dopo il tramonto, mentre imbruniva. Il decollo fu perfetto, anche se rumoroso.

Un riverbero rosso usciva dalla cabina di pilotaggio e si stendeva sulla massa di casse ammonticchiate al centro. Volavamo a tremila metri di quota e a 120 nodi l’ora. Dai finestrini rettangolari scorgevo il cielo nero trapuntato di stelle e, guardando in basso, le bisce lucide e contorte dei fiumi nella savana.

Mi avvicinai al pilota per avere qualche informazione sul viaggio: era un uomo magro, già in età ma con i capelli rossi, la pelle cotta dal sole e una risata facile e rumorosa. “Io – mi disse – non ho nome, non ho età, non ho luogo d’origine”. Il suo secondo pilota, poco più che ventenne, mi consolò aggiungendo: “Stia tranquillo, il comandante è un asso dell’aviazione”.

Era già notte fonda, quando l’aereo cominciò a scendere. “Siamo arrivati?”, chiesi al secondo. “No”, rispose laconico. Scendevamo nel nero della notte ed io mi chiedevo che cosa stesse per succedere.

Ad un tratto, nella savana sotto di noi, vidi improvvisamente accendersi due file parallele di fuochi. Mi venne in mente il volo di notte di Sain-Exupéry. Il pilota, con perfetta manovra, si allineò ai fuochi, scese ancora, imboccò il corridoio e prima che la pista di terra finisse fermò l’aereo, mantenendo accesi i motori. Faceva freddo. Una dozzina di guerriglieri infagottati nei pastrani comparve del buio e cominciò a scaricare alcune casse trasportandole in una capanna abbondantemente interrata e coperta di frasche che fungeva da terminal.

Qualcuno arrivò con un termos e mi offrì del the dopo avermi fatto scendere e intimato di sgranchirmi le gambe.

In pochi minuti le operazioni di scarico terminarono. Il secondo pilota portò al suo capo una bottiglia di whiskey dalla quale il mercenario bevve abbondantemente. Risalii a bordo. L’aereo con gran duttilità fece dietro front e andò a piazzarsi all’inizio della pista, alzando polvere rossa.

Per decollare il Dakota utilizzò non più di mezza pista. Le orecchie mi facevano male. Guardai giù e vidi che, uno dopo l’altro, i fuochi dentro i bidoni che ci avevano permesso l’atterraggio venivano spenti con sorprendente rapidità. Eravamo di nuovo nel buio, tra il cielo nero e la savana. La base segreta di Savimbi era di nuovo invisibile.

Volammo finché il cielo cominciò ad illividirsi. Ad un tratto, il pilota indicò al secondo i due bidoni che erano legati dietro la carlinga e disse “carburante”. Allora accadde quel che non avrei mai immaginato. Il secondo pilota appoggiò una pompa a mano sui bidoni, ne aprì uno, vi calò un tubo collegato alla pompa, mentre un altro tubo spariva sotto il pavimento di lamiera. Con vigore il giovane cominciò a pompare, travasando il carburante dai bidoni al serbatoio. Rifornimento in volo con metodi artigianali. Mi chiesi, senza darmi una risposta, che tasso di rischio comportasse quella manovra.

Albeggiava, quando finalmente m’indicarono le rade boscaglie attorno a Luiana, a pochi chilometri da Jamba, capitale di capanne di quella metà dell’Angola che Savimbi controllava combattendo il governo del nord, i russi, i cubani, e i tecnici della Germania dell’Est.

Atterrammo leggeri sulla sabbia. Scesi mentre sorgeva il sole. Gli ufficiali dell’”Unita” (la guerriglia di Savimbi) mi stavano aspettando un po’ preoccupati.
“Ha fatto un buon volo?” mi chiesero, con una punta d’ironia.
“Praticamente perfetto”, risposi.

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