» Articoli - 22 giugno 2010
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La cultura nei giornali
Da oltre un trentennio, la cultura nell’editoria
italiana è governata da tre regole: il postulato, l’ortodossia
(detta Politically correct) e il mercantilismo. Insomma,
è in continuo degrado.
“Il postulato”, leggo nel dizionario,
è “una proposizione non dimostrata che si chiede di
ammettere come vera”. Uno dei postulati più pesanti
del giornalismo culturale fu lanciato negli anni Settanta e Ottanta
e recitava così: “La cultura e l’estero non interessano
ai lettori”. Nessun sondaggio non ha mai confermato questo
dictat, arrivato dagli editori tramite gli obbedienti direttori
di testata, ma esso ha assunto subito valore di legge. La Terza
Pagina è diventata quindicesima, ha perso per strada l’elzeviro,
la critica letteraria, il gran reportage. Si è trasformata,
in quasi tutti i giornali, in sezione di “Cultura e spettacolo”,
all’insegna del motto: “Tutto è kultura”.
Qualsiasi menestrello ha avuto diritto a più spazio di Ezra
Pound, perché il menestrello ha un pubblico più vasto.
Sul servizio esteri citerò solo, a memoria,
una vecchia osservazione di Max Gallo su Le Monde: “Tutto
viene insaccato alla rinfusa, livellato: un terremoto con migliaia
di morti, i risultati sportivi, la riunificazione delle Germanie”.
L’ortodossia, ossia l’immortale
regola fascista, mantenuta in vita nel dopoguerra non tramite la
censura, ma attraverso l’autocensura, il servilismo, il lobbysmo
ideologico, trasformatosi oggi in monetizzazione dei salti della
quaglia, è stata uno degli elementi fondamentali della decadenza
culturale nei giornali e nelle case editrici. Rimando, per chi volesse
approfondire il tema, al mio libro “Giornalismo all’italiana”
(Ed. Ares). Citerò solo un episodio, per chiarirne la pesantezza.
Una volta, parlando con Rosellina Balbi, responsabile culturale
a “La Repubblica” mi sentii dire: “Non citerò
mai sul mio giornale un libro di Montanelli o di qualche montanelliano:
è una questione di principio”. Ecco la cultura ortodossa,
vista come hortus clausus politico, con la sua kapò
all’ingresso.
Il mercantilismo è il frutto più
recente della fine delle ideologie: chi non ha più trovato
rifugio sotto di esse, sotto la monocultura di sinistra, ha trovato
comoda ospitalità nei contenitori di pubblicità della
nuova “editoria di mercato”. Così, da un lato
il giornalismo scritto si fa pilotare da quello televisivo, dall’altro,
in nome dell’audience, scopre che il marketing gli
impone la ricetta gossip- sport- scoop con lo stesso accanimento
con il quale i successi televisivi sono realizzati grazie alle natiche
delle onnipresenti ballerine.
Se in Tv i libri vengono goffamente veicolati o
attraverso rare trasmissioni fortemente politicizzate o, nella Tv
privata, grazie a giovani scollate che parlano stentatamente l’italiano,
sui giornali la cultura è ridotta al pettegolezzo, si trasforma
penosamente in cassa di risonanza del gadget (Il Corriere
dedica ogni giorno una pagina intera al libro messo in vendita a
prezzo scontato col giornale), i libri segnalati sono quelli che
l’editore (lo stesso del giornale) vuole promuovere, o che
gli amici degli amici piazzano quando possono. Le classifiche dei
libri sono il vangelo della promozione e i bestsellers di origine
televisiva sono le collezioni di barzellette raccolte dai calciatori
o dai comici del teleschermo. Il mercato incombe, i bilanci quadrano
con le spy-story.
Le pagine culturali non hanno più un programma
a lungo raggio né un indirizzo preciso. Piovene, quando volle
nel neonato Giornale di Montanelli “la pagina delle
idee”, ci diceva che la cultura era lo zoccolo duro sul quale
si reggeva tutto l’impianto della pubblicazione. Oggi una
simile enunciazione butterebbe nello sgomento le redazioni culturali,
diventate rifugi pericolanti di giornalisti che non leggono, non
decidono, non scelgono, ma insaccano secondo le disposizioni venute
dall’alto, riservandosi qualche piè di pagina per alimentare
la catena del “io ti recensisco perché tu poi mi recensisca”.
La pagina della cultura dovrebbe essere il condensato
di quanto si agita e si produce nel mondo culturale, con particolare
attenzione alla produzione dei libri. Non è più così.
Qualche tempo fa, Ferdinando Camon invitò
gli scrittori del PEN Club Italiano a dire che fine aveva fatto
la recensione sui giornali. Risposero 29 scrittori, per la rivista
del PEN “Letture”, e tutti parlarono di “morte
della recensione”. Qualche citazione di quell’inchiesta
aiuta a capire.
Giorgio Calcagno: ” Il libro, nella dittatura dei numeri,non
ha bisogno di inviti alla conoscenza, ma di fanfare per il lancio;
lo stesso autore è diventato un ingranaggio secondario di
una macchina dove il motore è il marketing”.
Giorgio Barberi Squarotti: “Le case editrici vogliono che
il libro sia di brevissima durata… perché possano essere
pubblicati altri libri. (Nei giornali) i recensori sono quasi tutti
spariti. La recensione è sostituita dalle interviste agli
autori, per lo più stolte per autocelebrazione, oppure vane,
banali, sciocche… Chi non mira ad altro che al rapido guadagno
non merita che disprezzo (editori e recensori e ministri che siano,
ma anche insegnanti e genitori)”.
Giuseppe Bonura: ”I killer sono:1) Il capitalismo energumeno
che preferisce la cultura della pubblicità e della televisione,
che fanno guardare senza pensare. 2) I maggiori quotidiani che sono
in mano a questi manovratori e che vedono le recensioni serie come
il fumo negli occhi. 3) I moltissimi critici che per quieto vivere
accettano di produrre la recensione mondano-salottira, senza accorgersi
di tradire la letteratura e di adulare i potenti”
Antonio De Benedetti: “Una delle cause principali della crisi
va ricercata nella scomparsa del titolare di rubrica. I giornali
non si affidano più a collaudati lettori di professione,
come Cecchi, Pancrazi o Paolo Milano, tanto per fare degli esempi.
Adesso tutti recensiscono, tutti sono resposabili e nessuno è
responsabile”.
Gian Carlo Ferretti: ”La stampa quotidiana e settimanale per
lo più tende a trattare il libro secondo sue formule: come
pretesto, associandolo all’uscita di un film, all’occasione
di un convegno o alla ricorrenza di un anniversario, nell’ambito
di questa o quella disciplina. O come “caso” letterario
o extraletterario, attraverso la scoperta spettacolare di un testo,
la proposta di una tesi provocatoria, la curiosità di un
personaggio, la ricerca di una polemica. Per contro la vera informazione
e critica libraria e letteraria è ridotta e casuale”.
Nico Naldini: ”Alla Società delle Lettere di un tempo
(criticabile se si vuole, ma di indubbia consistenza) oggi si è
sostituita la Società degli editori con i loro prevalenti
problemi di mercato. All’autorevolezza del giudizio critico
si è sostituito lo scoop e la creazione attraverso i mass-media
dei best-sellers (parola che a Gertrud Stein ricordava il rumore
di un sassolino lasciato cadere nella tazza del cesso). Alcuni costruiti
a tavolino nelle redazioni editoriali. E poiché l’apparizione
di uno scrittore nel salotto di Bruno Vespa basta a creare il successo
di un suo libro, per quale ragione dare spazio alle recensioni difficili
e noiose? E poiché non esiste più una gerarchia della
consistenza, votiamoci pure all’inconsistenza e plaudiamo
il successo degli scalzacani”.
Renzo Rossetti: ”Oggi i grandi giornali hanno le stanze stracolme
di libri che nessuno legge e che poi vengono regalati ad enti vari
o, più spesso, rivenduti per finire sulle bancarelle…
Pensare che i giornali di oggi possano suggerire una buona lettura
è un’illusione. Se non c’è scontro, polemica,
invettiva, insulto, il giornale rimane indifferente”.
Paolo Ruffilli: ”La morte della recensione è un altro
segno dell’imbarbarimento italiano che anche etimologicamente
è un decadimento culturale, col trionfo dell’analfabetismo
di ritorno assunto e fatto proprio dai presunti intellettuali che
occupano le alte poltrone dei giornali, delle testate radiofoniche
e televisive e che sono appannati dalla frenesia dell’intrattenimento
e dello spettacolo per ragioni di audience e di cassetta”.
Ferdinando Camon: ”Finchè erano vivi i grandi critici
succedeva che il libro andava per la sua strada, incontrava il grande
critico che lo riconosceva e lo consacrava, conferendogli l’immortalità.
Il libro aveva così la sua durata che prescindeva dal successo…
Gli editori erano sensibilissimi a questi incontri. Quell’epoca
è finita. La durata di un libro diventa oggi la sua disgrazia.
Avere in catalogo un libro che vende sempre poco ma non muore mai
è come avere in casa un malato di malattia cronica che non
lavora, non produce, ma non esce mai dalla vita. In Occidente, la
peggior disgrazia che possa capitare a una famiglia”.
Il discorso, qualunque strada prenda, arriva sempre
al mercantilismo imposto come regola sostitutiva di qualsiasi input
culturale dagli editori e avallato dai giornali. I giovani scrittori
lo hanno capito da tempo e sembrano più rassegnati degli
autori stagionati. Filippo Tuena sostiene con freddo realismo che
una buona serie di recensioni fa vendere oggi soltanto dalle 200
alle 250 copie in più e tocca lo 0,001 per ceto dei lettori
di giornali”. Tuena prende atto e spera nel tam tam di Internet.
Altri puntano su un ritorno delle riviste letterarie
specializzate. Certo, si fa buon viso a cattiva sorte ma questo
ridursi dei giornali al solo mercato resta deprimente e culturalmente
regressivo. Alcuni giornali hanno da tempo tentato di sopperire
a questa mancanza di informazione culturale con un inserto settimanale
destinato a catalizzare l’attenzione di chi non è ancora
stato standardizzato dalla cultura televisiva, ma anche questo tentativo
ha dovuto scontrarsi con i tutori dei bilanci e con gli uomini del
marketing. Risultato: il “Mercurio” di Repubblica
è stato soppresso, “Tuttolibri” de La Stampa
è diventato “Tuttolibri-Tempo Libero”. L’inserto
del Sole 24 Ore, per anni giudicato il migliore in Italia,
ha perso il suo uomo-guida, Armando Torno, il quale, dopo
essere stato chiamato al Corriere della Sera per rinforzarne
il settore culturale, è stato presto dirottato altrove, probabilmente
perché insensibile alle regole del politically correct.
Da questa ottundente normalizzazione sembrano meno
colpiti i giornali regionali. Sono i soli a curare l’orto
della produzione locale e a segnalare con tempestività gli
eventi culturali e i libri degli autori concittadini. Ma anche qui
si sente gelido il soffio del marketing: lo spazio dedicato alla
cultura “non paga” in termini di denaro e di pubblicità.
I tentativi di ridurre i costi non giovano al prodotto. Tipico il
caso dei giornali di Riffeser (Nazione, Carlino, Giorno) che per
la cultura hanno una sede unica, presso la Nazione, perciò
per segnalare un evento culturale milanese occorre appellarsi, non
senza fatica , alla redazione fiorentina.
E qui si apre la stravagante storia delle redazioni
culturali le quali, tutte, si sono trasformate nella fortezza Bastiani.
Vegliate da quelle mura invalicabili che sono le segreterie telefoniche,
esse vivono in un isolamento totale. In nome della difesa dagli
assalti degli uffici stampa, i redattori culturali sono praticamente
irraggiungibili: la cultura vive su fronti separati, incomunicanti,
dentro e fuori dei giornali. Arriva alle redazioni solo tramite
sponsor: l’editore, l’ufficio pubblicità, gli
amici, gli amici degli amici. Unico messaggero con salvacondotto
è Internet, con le sue e-mail, ma è un messaggero
che non garantisce risposte: il messaggio arriva ma non si sa se
verrà letto e da chi. Esattamente coma accade ai messaggi
telefonici sepolti nelle segreterie automatiche.
Se dall’esterno queste redazioni appaiono
come indolenti centri di disorganizzazione, dall’interno appaiono
vivaci come campi di Agramente sui quali si scontrano le fazioni
divise dal credo politico, dall’appartenenza a questa o quella
lobby, dalle sorde lotte per le carriere interne.
L’evento culturale o arriva in redazione per
le strade anomale sopra indicate o non arriva. Un esempio classico
è rappresentato dai premi letterari. Ogni anno, in apertura
di stagione, non c’è giornale che non pubblichi un
articolo a sfottere sui grandi premi letterari oggetto di volgare
mercimonio tra organizzatori e editori. Ma quando quei premi o quelle
fiere aprono i battenti, ecco le redazioni , così critiche
pochi giorni prima, accorrere in massa al rito mondano che serve
all’editore per lanciare i suoi prodotti, indipendentemente
dal loro valore contenutistico. Per contro, le poche manifestazioni
indipendenti dal mercato editoriale e dal patrocinio politico e
dedite alle scelte qualitative si vedranno disertate dai cosiddetti
redattori culturali perché l’editore è interessato
ad altro, il direttore del giornale considera la cultura non remunerante,
il politico della zona dove avviene l’evento non è
abbastanza potente da coinvolgere la televisione, senza la quale,
per i giornali, un evento, per culturalmente importante che sia,
non è un evento.
E’ attraverso questo meccanismo perverso che la cultura viene
annegata in quella specie di cocktail letale, formato dal mondo
politico e da quello mercantile dell’editoria, apparentemente
ostili ma di fatto complici.
Stabilito che la cultura dei giornali è succube
del mercantilismo editoriale e del dictat televisivo, si arriva
presto alle conclusioni a cui è arrivato da tempo Armando
Torno: non c’è nulla di culturale che emerga dal caos
delle centomila iniziative promosse dagli enti pubblici o privati
se non interviene la televisione. Ma la televisione interviene solo
– a-culturalmente – o per favorire il mercato degli
editori o per obbedire agli input politici. E’ così
che ogni anno vediamo spacciare per cultura certe esibizioni di
mondanità (politici e damazze in primo piano), premiare libri
sponsorizzati dai partiti e non ancora conosciuti dal grande pubblico,
creare dal nulla risibili appuntamenti culturali in centri di provincia
dove il dominus politico, a caccia di consensi elettorali, provvede
a ottenere “la diretta” o “la differita”
televisiva, mentre i pochi avvenimenti seri restano spesso ignorati
dalle telecamere e quindi dai giornali.
Se è vero, come è vero, che è
la televisione a fare da modello ai giornali, anche per la cultura,
allora si spiega perché la stampa in generale si sia ridotta
alla pubblicazione delle schedine (sette righe a libro, copiate
dal risvolto). Sui nostri teleschermi, una rubrica fissa e intelligente
come la francese Apostrophe è irreperibile. C’è
qualche trasmissione fortemente impegnata politicamente e poco adatta
a informare e nulla più. Per il resto, ogni volta che si
parla del libro lo si fa con la “schedina” affidata
agli NN della cultura o a qualche siparietto ludico per i pupi.
Mezzo secolo fa la Rai aveva “Il convegno
dei cinque”, trasmissione altamente culturale. Ma erano altri
tempi e infatti anche i quotidiani vendevano due milioni di copie
più di oggi. Oggi le tirature vengono gonfiate dai gadget.
Il quotidiano è diventato il gadget del suo gadget. E quando
il gadget finisce, la tiratura ridiscende.