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La signora di Verrua«
La signora di Verrua
L'amante del Re
(Di seguito si propone il capitolo VIII)
La Verrua cede al duca nel palco del Teatro Regio
e diventa l'amante «in carica» - Una fama immediata
di «dama di voluttà» - Vacanze su misura: tutta
la corte parte per Nizza
Per
una signora dell'aristocrazia italiana, alla fine del Seicento,
il luogo più favorevole per portare a conclusione un'avventura
galante era, per quanto possa sembrare incredibile, il teatro. Nella
patria del bel canto si andava allo spettacolo per molti motivi,
tra i quali tuttavia l'ascoltare musica non era il più importante.
Il buon Rousseau se ne sarebbe presto lamentato:
Venivo preso talmente dall'opera che, stanco
di chiacchierare, di mangiare e di giocare nei palchi, lasciavo
spesso la compagnia per rifugi armi in una loggia vuota.
Le sale erano scarsamente illuminate: solo un'ora
prima della levata del sipario si accendevano due torce sul palcoscenico
e poche candele nelle logge, ma il teatro restava in gran parte
al buio. «In platea non c'era» come scrisse il conte
de Brosses «che la canaglia, sulla quale i nobili non esitavano
a sputare e a far colare la cera dei moccoli.» In loggione,
rumoreggiavano i domestici, fino a un quarto d'ora dalla fine dello
spettacolo, quando, con le torce in mano, andavano a chiamare i
cocchieri.
Gli aristocratici occupavano, dal secondo ordine
in su, i palchi, che erano spesso costruiti in modo tale da poter
essere chiusi anche sul davanti, perché la recita non disturbasse
i conversari. L'attenzione del pubblico si concentrava quasi esclusivamente
sui cantanti alla moda, specialmente durante gli assolo, ma calava
fino a scomparire nel corso dei lunghi recitativi: allora si vedevano
i signori giocare a carte o spostarsi da un palco all'altro, per
le visite di cortesia.
A Torino, il palco reale, al centro del loggiato
e all’altezza del secondo ordine, era chiuso sul retro da
porte a specchi sulle quali si rifletteva il palcoscenico per coloro
che, giocando al tavolo e voltando le spalle alla scena, volessero
comunque tener d'occhio lo spettacolo. Quando il duca di Savoia
presenziava, il clamore e gli entusiasmi della folla venivano a
stento contenuti entro limiti sopportabili: la confusione era comunque
notevole e la penombra la favoriva.
Vittorio Amedeo, nel gennaio del 1689, scelse dunque
questo luogo per sferrare l'attacco decisivo alla giovane signora
di Verrua.
Erano quelli giorni di grande allegria e si stava
passando, senza soluzione di continuità, dalle feste di capodanno
a quelle di carnevale. Alla prima rappresentazione di Silvio,
re degli Albani, musicata da D. Gabrielli, su testo dell'abate
Aurora, il duca invitò Madame allo spettacolo e le fece riservare
un palco (proprio sopra quello ducale occupato da sua moglie), dove
la raggiunse quasi subito. Lo «scandalo» scoppiò
così sotto gli sguardi attenti della corte, tanto che l'ambasciatore
di Francia, da tempo costretto dal suo re al ruolo di voyeur,
ne diede relazione scritta.
La contessa di Verrua si è recata mercoledì
scorso all'opera e per la prima volta ha preso posto nel palco sovrastante
quello della duchessa di Savoia. Il palco non era minimamente illuminato
e il duca vi si intrattenne per quasi tutto il tempo, salvo i pochi
minuti durante i quali fece una scappata negli altri, per non far
rimarcare tutto quell'attaccamento alla signora di Verrua. Il conte,
marito di costei, e lo zio abate, che erano in una delle mie logge,
furono interamente presi dal seguirne i movimenti.
Della natura di quei «movimenti» il d'Arcy
non parla, ma è evidente che egli immaginasse senza fatica
anche ciò che il buio non gli aveva consentito di vedere,
com'era accaduto, del resto, a buona parte dell'aristocrazia presente
in sala.
Più difficile, per noi, immaginare quel focoso
amplesso tra il sovrano, in «velada» di seta, gilè
di broccato, camicia di lino, calzoni annodati al ginocchio, calze
e scarpine con il fiocco, e la contessa, in abito lungo, sottogonna,
corpetto, calze fissate col nastro, costretti a mantenere un minimo
di presentabilità per il «dopo», nonostante i
problemi derivanti dall'instabilità delle parrucche, dei
posticci e delle incipriature.
Ma forse l'erotismo nasceva proprio da tutto questo
apparato di accidenti e dalla presumibile necessità di far
coincidere l'estasi con gli acuti di Barbara Riccioni, Diana Orellia
e Domenico Cecchi, detto «il Cortona», ingaggiati a
peso d'oro per l'occasione e fatti arrivare da Venezia, per espressa
volontà della duchessa, evidentemente ignara di quanto sarebbe
accaduto.
L'indomani, tutta l'aristocrazia torinese ebbe di
che conversare: gli innocentisti gettarono la spugna; la duchessa,
probabilmente informata, assunse quell'atteggiamento di dignitoso
distacco al quale non avrebbe più rinunciato; la Verrua affrontò,
senza battere ciglio, il sordo rancore dei familiari, continuando
a frequentare assiduamente Palazzo Reale, dove i cortigiani cominciavano
a riservarle quei riguardi e quelle adulazioni con le quali erano
soliti ingraziarsi le amanti in carica.
Il rapporto tra Jeanne-Baptiste e Vittorio Amedeo
emanava eccitazione: la contessa conosceva per istinto l'arte di
farsi desiderare, di lasciare qualcosa di inappagato - a ogni incontro
- nel suo spasimante, di ottenere senza chiedere, di considerare
ogni favore come una dimostrazione d'amore. Il giovane duca, dal
canto suo, era in preda al desiderio, esaltato dalla difficile conquista,
innamorato e nello stesso tempo preoccupato di non lasciarsi travolgere
dall'avventura, di non mescolare il potere con gli affari di cuore.
Ma la Verrua non è donna da accontentarsi:
chiede i primi «favori», non per sé ma per chi
può dar lustro alla sua influenza. Chiede, ad esempio, al
duca di far rientrare dall'esilio di Venezia il conte di Monasterolo.
La pretesa è colma di doppi sensi: il contino, infatti, era
stato cacciato due anni prima perché considerato un corteggiatore
troppo ostinato della marchesa di Priero, favorita di turno del
duca. Vittorio Amedeo resiste, per amor proprio, ma è l'ultima
volta che gli riesce. La sua passione cresce e il suo rapporto con
la Verrua si trasforma in un amore a dispetto, contrassegnato da
frecciatine, musi, baruffe pubbliche e focose rappacificazioni.
Tutte queste manovre erano rese possibili dalla stagione invernale,
densa di "appuntamenti: prima il carnevale, con le feste, gli
intrattenimenti, gli spettacoli, poi la quaresima che, nella Torino
del Seicento, era pure uno spettacolo mondano, durante il quale
i duemila preti della capitale piemontese lavoravano senza soste:
la maggior parte degli uffici religiosi venivano celebrati a suon
di musica e con grandi luminarie: l'aristocrazia vi prendeva parte,
facendo gruppo a sé, conversando al suono dell'orchestra,
durante le processioni.
Vittorio Amedeo doveva chiedersi come avrebbe potuto
organizzarsi, per la primavera, quando tutte queste occasioni si
sarebbero esaurite. Ed eccolo, inaspettatamente, annunciare una
visita ufficiale alla città di Nizza, da effettuarsi non
solo con la solita scorta militare, ma anche con un nutrito gruppo
di cortigiani.
La scelta di Nizza non era casuale: la cittadina
rivierasca era abbastanza amena per organizzarvi un piacevole soggiorno
sentimentale, ma costringeva a un viaggio faticoso e impervio, tale
da scoraggiare le persone in età, prima tra tutte Madama
Reale, la quale, da qualche tempo, dava segni crescenti di insofferenza
per la tresca del figlio.
Nizza rappresentava lo sbocco al mare del Piemonte:
i Savoia l'avevano sospirata per secoli, ma la possedevano solo
da un centinaio d'anni e tuttavia non erano ancora riusciti a congiungerla
a Torino con una «carrozzabile», nonostante i lavori,
giganteschi per l'epoca, ordinati da Carlo Emanuele I. Al tempo
di Vittorio Amedeo esisteva una carrareccia da Torino a Limone e,
sull'altro versante della montagna, una strada da Nizza a Scarena,
ma nel tratto intermedio di montagna non c'era che un'impervia mulattiera
che saliva per luoghi aspri e disabitati, interrotti solo dal casolare
di Fontano e dal cupo rifugio del Col di Tenda. Su quei gioghi,
i viaggiatori si muovevano a dorso di mulo, le donne su portantine
sorrette da gente del luogo che si faceva pagare profumatamente.
D'inverno, si assoldavano i «collanti»,
cioè gli uomini del colle, quasi tutti di Limone, che con
le zappe scavavano gradini nel ghiaccio e trascinavano le slitte
con incredibile perizia. Da novembre a marzo, il viaggio rappresentava
un'avventura piena di incognite. Col bel tempo, si impiegavano due
giorni e mezzo nel solo tratto tra Cuneo e Nizza, a dorso di mulo.
Scelto questo non facile itinerario, Vittorio Amedeo
scrisse a sua madre dicendosi certo «che ella non avrà
volontà di unirsi alla compagnia», poi fece pervenire
gli inviti agli amici più fedeli, ai parenti più stretti
(Luisa di Savoia e i prìncipi di Carignano) e, naturalmente,
alle dodici dame di compagnia, alle quali era permesso di farsi
accompagnare dai mariti. Tra queste, ovviamente, c'era la Verrua
per la quale, in effetti, era stato ideato quello strano viaggio
ufficiale.
La partenza, fissata per il 4 aprile, mise in moto
la macchina dei preparativi che non si fermò neppure quando
la corte prese il lutto stretto per la morte della regina di Spagna.
Gli invitati non conoscevano né la durata del viaggio né
dove il duca fosse intenzionato a far tappa: il mistero aleggiava
su quell'avventura, dalla quale gli ospiti privilegiati si aspettavano
ogni sorta di colpi di scena.
In casa Verrua, intanto, il clima si era fatto insopportabile:
la vedova era diventata di ghiaccio, l'abate mugugnava senza tregua,
evitando tuttavia di proporre qualche soluzione. Il giovane conte
passava da momenti di mal represso furore ad altri di cupa depressione:
rifiutare l'invito non poteva; accettarlo, significava dichiarare
ufficialmente la sua posizione di marito tradito. Scelse, come al
solito, la fuga e si mise a letto malato. Passava la mano: adesso,
in imbarazzo, dovevano sentirsi sua moglie e il duca. Fu quest'ultimo
a reagire, l'antivigilia della partenza, con una mossa da giocatore
di scacchi. Alla Verrua giunse infatti un biglietto della duchessa
di Savoia nel quale si diceva:
Considerato il fatto che la prima tappa del viaggio
non supererà Moncalieri, distante da Torino non più
di due piccole leghe, la contessa può partire. Eventualmente
potrebbe ritornare in città se la salute del marito peggiorasse.
Il corteo si mosse la mattina del 4 aprile. In testa
marciava una mezza compagnia della guardia a cavallo. Seguiva, a
breve distanza, la carrozza ducale, poi le vetture degli ospiti,
delle dame e delle damigelle di corte, seguite da alcuni carri,
dai cavalli di scorta e da altre guardie. Distanziata di qualche
centinaio di metri veniva, infine, la carovana dei carriaggi con
i bagagli e i bauli. Chiudeva il corteo l'altra mezza compagnia:
gli uomini montavano cortostaffati, tenendo il moschetto sulla coscia.
Le strade erano polverose, ma il clima mite rendeva
il viaggio piacevole. La prima tappa - come promesso - fu conclusa
al castello di Moncalieri, dove tutto era stato preparato per il
pernottamento. In collina, l'aria era fresca e il duca sprizzava
buon umore. Dal maniero si vedeva il borgo dove, secondo l'Ariosto,
era nato Palidone, ucciso poi da Cloridano. La tappa era stata breve
e gli ospiti non erano stanchi: per la serata fu tenuta una mensa
frugale, dopo la quale la comitiva si divise in gruppi per i giochi
di società.
A ora tarda arrivò un portaordini da Torino
con le novità di casa Verrua: il conte era «stazionario»,
avrebbe raggiunto il gruppo appena possibile.
-» La signora di Verrua. L'amante del Re, di
Lucio Lami
Rizzoli 1985, Tea 1995
ISBN: 88-7819-547-2 (TEA)