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Giornalismo all'italiana

Dalla contestazione al nuovo regime

 

Prefazione

(Diario di un renitente)

Copertina libro: Giornalismo all'italiana, di Lucio LamiIl disagio cominciò con l’autunno caldo del ’68. Allora dirigevo un settimanale della Rizzoli. Un giorno scrissi un corsivo per commemorare l’anniversario della morte di Guareschi, che era stato amico dei miei famigliari: un corsivo innocuo che parlava del carattere dello scrittore. Il giorno stesso dell’uscita del giornale Enzo Biagi, direttore editoriale della casa editrice, piombò nel mio ufficio rimproverandomi di aver commemorato un uomo di destra. Era la prima avvisaglia del conformismo in arrivo. (Oggi Biagi è un simpatico estimatore di Guareschi).

Due anni dopo, ricevetti una telefonata di Nando Sampietro, direttore di Epoca, che non avevo mai conosciuto. Mi disse che aveva letto il mio libro sulla campagna di Russia e che lo aveva favorevolmente commentato con Salvator Gotta. Mi propose di passare al suo giornale, come caporedattore. Gli dissi subito di sì, ma poi attesi per mesi che mi richiamasse. Quando lo fece mi spiegò che non era più direttore della rivista, che era stato promosso (ut amoveatur) ma che intendeva mantenere la parola.

Prendendo servizio capii subito come stavano le cose. La Mondadori sembrava in stato prerivoluzionario. Panorama indiceva assemblee settimanali che sembravano la perversa imitazione di quelle della Statale. Le Br «erano sedicenti», la violenza «solo di destra». l comitati di redazione ricevevano i comunicati dalle Università come bollettini dal fronte. Molti funzionari della casa editrice avevano figli già segnalati tra i «bombaroli» e ispiravano la «resistenza». I sindacalisti ripetevano senza sosta che «bisognava farla finita con Epoca, giornale fascista». Il nuovo direttore, Domenico Agasso, cattolico, dava un colpo al cerchio e uno alla botte con curiale atarassia. Poi tutti i «quadri» non di sinistra furono attaccati. Senn, il grande amministratore, che non si sarebbe più rimesso dal colpo, fu giubilato. Sampietro rispedito a dirigere un settimanale femminile; Giovanni Cavallotti, il poliglotta caporedattore di Epoca venne licenziato nel 1974, durante la festa di insediamento del nuovo direttore.

Quando Montanelli fondò il Giornale e venni invitato in Piazza Cavour accettai l'offerta prima ancora di sapere a quanto sarebbe ammontato lo stipendio. A Epoca la Pasionaria del sindacato commentò così la mia uscita: «Peccato, non ci ha dato il tempo di farlo fuori».

Al Giornale, tra i profughi del Corriere, ci ritrovammo in molti ex mondadoriani: Torelli, Rossi, e, più avanti, Grazzini, lo stesso Cavallotti e poi Caputo. Da lì assistemmo all'interminabile agonia di quello che era stato uno dei migliori e più venduti settimanali d'Europa. Da lì assistemmo alle grandi epurazioni nei giornali, delle quali parlo più avanti, in compagnia di tanti ex collaboratori illustri di Epoca, da Enzo Bettiza a Cesare Zappulli.

Vent'anni dopo, nel 1994, quando in seguito alla rottura tra Montanelli e Berlusconi lasciammo, per vie diverse, il fortino dal quale avevamo combattuto onorevolmente, ci accorgemmo che la pace regnava sovrana nel mondo giornalistico. La rivoluzione aveva vinto, quelli che ci avevano attesi, minacciosi, indossando l'eskimo, sulle porte delle redazioni adesso dirigevano i giornali, i sindacalisti avevano ottenuto incarichi remuneratissimi, i loro protetti pure, i meno capaci avevano ottenuto un posto in Parlamento.

Il giornalismo era monocorde e lottizzato al 90 per cento. Gli editori, in compenso, avevano fatto strame del nostro vecchio contratto giornalistico e usavano la cassa di integrazione con la stessa disinvoltura della Fiat, i giornali erano popolati da abusivi, vigeva la legge del «chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori», cosa che garantiva agli ex rivoluzionari un posto a vita.

La stampa era lontana le mille miglia dal giornalismo che avevo praticato a Epoca, e prima ancora alla Rizzoli o alla Rusconi o da Mazzocchi, per non dire del Giornale che mi aveva fatto viaggiare per anni e anni in tutto il mondo senza che Montanelli mi censurasse mai un solo aggettivo.

Il risveglio era brutale: i nuovi trend professionali calpestavano la deontologia. Gli slogan dei giovani direttori erano: «Ciò che avviene all'estero non interessa nessuno», «Gli inviati non servono», «La cultura annoia se non è presentata come spettacolo», e via discorrendo.

Appesi al chiodo la vecchia «Lettera 22», mandai in campagna le sahariane portate in Africa, le giacche termiche dell'Afghanistan, le mantelle plastiche usate in Amazzonia e accettai di diventare il responsabile della redazione milanese de L'Informazione, che stava per decollare, deciso più che mai a non farmi lottizzare. Il direttore, Mario Pendinelli, invitandomi a lavorare nel suo giornale, mi aveva fatto vedere una lista di cento eterogenei finanziatori dicendo: «Sono tanti che non possono imporci nulla; faremo un giornale libero, liberale, anticonformista». Ma l'incanto durò poco. La redazione, a mano a mano che venivano fatte le assunzioni sembrava, leggendone i nomi, un estratto del Cencelli. Andare in visita alla sede romana mi dava sempre l'impressione di entrare in una succursale del Parlamento.

Preceduto da una campagna pubblicitaria miliardaria, L'Informazione «che prima non c'era» uscì all'insegna di un dilettantismo impressionante, prima ancora che il suo sofisticato sistema informatico fosse funzionante. Per giorni e giorni il quotidiano arrivò a Milano alle ore più disparate senza che i milanesi si accorgessero della sua uscita.

Travolto da una gestione guatemalteca, il foglio che doveva essere anticonformista dapprima divenne una voce fortemente clericale (con i vescovi che firmavano gli editoriali) poi, di punto in bianco e per ragioni di sopravvivenza, la versione stampata del telegiornale di Emilio Fede. Le pagine di Milano si tennero fuori da questa ubriacatura, almeno fino alla mia dipartita.

Ormai diventava sempre più difficile lavorare scansando le ondate continue dei compromessi. Era il giornalismo intero in stato di servitù. Bastava leggere le gerenze dei giornali dove ora il nome dei direttori veniva dopo l'interminabile elenco dei burocrati, i veri artefici della linea politica, in combutta con la proprietà, il marketing, la pubblicità, per non parlare dei padrini politici.

Era ancora possibile creare un giornale libero, un giornale per i lettori? Era possibile denunciare questa società, questa politica, questa cultura?

Quasi per rispondere a queste domande avevo accettato il finanziamento di un privato per creare una rivista di cultura e di politica che rivendicasse questa impostazione ideologica.

La chiamai classicamente Commentari e ne feci una palestra di pensiero, chiamando a collaborare gli intellettuali italiani e stranieri che ne condividevano l'impostazione.

Bastino alcuni nomi: Karl Popper, Alain Besançon, Vladimir Bukovskij, Marc Fumaroli, Paul Johnson, Vittorio Mathieu, Jean François Revel, Sergio Ricossa, Domenico Settembrini, Mario Silvestri, Marco Vitale, Aleksandr Zinov'ev. La rivista fu subito molto apprezzata, anche se la stampa tacque, riservando le sue attenzioni alle vicende di Cuore, et similia.

La pubblicazione era uscita da pochi mesi quando l'editore mi annunciò a bruciapelo che stava per venderla. «Dell'Utri», mi disse, «mi ha offerto ottocento milioni».

Non attesi altre spiegazioni e mi dimisi.

La vicenda fece rumore e il Corriere della sera ne raccontò i dettagli. Io spedii una sventagliata di telegrammi di protesta a Berlusconi, Letta e a quanti dovevano sapere. Due giorni dopo, dall'ufficio di Dell'Utri mi chiamarono al telefono per dirmi che l'acquisto non sarebbe stato fatto.

L'editore dovette smentire frettolosamente la vendita e dichiarò che il giornale avrebbe continuato le pubblicazioni. Poi chiuse bottega.

Amici che tenevano un piede nella mia rivista e uno nel Polo mi spiegarono poi che l'idea di quest’ultimo era di produrre una rivista adatta a raccogliere quelle firme che ora appoggiavano Berlusconi, ora lo attaccavano, specialmente sul Corriere, e di creare una palestra che lasciasse aperta la porta ai compromessi. Commentari avrebbe potuto servire, ma le mie pretese di autonomia avevano spinto gli interessati a optare per una nuova testata.

Poco dopo sarebbe apparsa una fioritura di queste pubblicazioni, da Liberal a Ideazione, tutte saldamente ancorate (anche pubblicitariamente) al sistema.

 

Nel marzo del 1996, mi offrirono la direzione dell'Indipendente. La Lega stava congedandosi come editore e passando le consegne alla cooperativa Mediatel.

Il giornale languiva ma, come mi dimostrarono gli amministratori, avrebbe potuto essere rilanciato grazie al contratto di pubblicità che legava il giornale all'agenzia parastatale Mmp. La redazione era in subbuglio: rimasta senza direttore scioperava per averne uno, sicché il mio ingaggio avvenne fulmineamente dopo una riunione notturna conclusasi con una lettera impegnativa dell'editore che anticipava il contratto.

La domanda che mi ponevo in quei giorni era sempre la stessa: si può far uscire un giornale che risponda ai lettori e non al regime? Domanda retorica.

Ero da poco insediato quando il contenzioso tra la nuova editrice e la precedente, leghista, esplose. Quest'ultima portò i libri in tribunale, chiese il fallimento e senza licenziare i redattori annunciò loro, semplicemente, che non avrebbe più pagato nessuno.

Per sistemare questa situazione si attendevano i denari dell'agenzia pubblicitaria, ma la Mmp bloccò il contratto, quasi che il suo rapporto fosse col partito di Bossi anziché col giornale. Sempre sperando che questo equivoco si chiarisse, mantenni in vita il giornale con pochi collaboratori mentre la redazione restava in sciopero.

Inutilmente. Il giornale fu costretto a chiudere. E i gestori se ne andarono sorridenti, dicendomi: «Quando la Mmp perderà la causa, incasseremo miliardi». Ma intanto il giornale moriva, sacrificato al principio secondo il quale la pubblicità di un'agenzia di Stato arriva solo se un partito si fa garante. La magistratura tacque, il sindacato dei giornalisti fece una modesta piazzata, e tutto finì.

Spiegai ai lettori, con l'ultimo editoriale, che questa è la realtà italiana, questo è il regime. Ho dato appuntamento a tutti da qualche altra parte, magari su un samizdat ciclostilato, di quelli che i miei amici Maximov e Bukovskij usavano, quando già il Muro era pericolante, per far arrivare la loro voce a coloro che ottusamente continuavano a servire.

Nel frattempo mi piacerebbe che chi si lamenta dei giornali, senza rendersi conto che è il sistema, come la mantide, a blandirli e a fagocitarli, meditasse su queste righe. Certo, l'informazione ha problemi che sono di carattere planetario, e ne parlo nella prima parte di questo scritto, ma quella italiana ne ha, come dico più avanti, di particolari, di peggiori, che vengono da lontano, e che favoriscono pericolosamente il degrado intellettuale e morale del Paese.

 

Giornalismo all'italiana. Dalla contestazione al nuovo regime, di Lucio Lami
120 pag., 10,33 euro (al 13 gennaio 2008)
Edizioni Ares, 1997 (collana Sagitta),
ISBN: 88-8155-139-X
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