» I libri »
Perché mezza italia non vota più «
Perché mezza Italia non vota più
(Di seguito si propone la prefazione dell'autore)
“Ora
non ci resta che esaminare
come il tiranno nasca dall’uomo democratico”
Platone, De Republica, libro VIII
Nell’autunno del 1997 riuscii, con l’aiuto finanziario
di alcuni amici imprenditori, a riportare in edicola L’Uomo
Qualunque.
Intendevo rivolgermi a quel gran numero di italiani che già
allora si andavano allontanando dalle urne per totale sfiducia nel
regime della partitocrazia, così come si allontanavano dai
media ad esso legati.
Il ritratto di questo popolo di tartassati, ancor oggi combattuto
tra rassegnazione e voglia di rivolta (spesso, tutt’altro
che incruenta), è stato realizzato grazie a un’indagine
demoscopica commissionata dal mio giornale (nel 1998) all’istituto
Cirm. Da questo studio risulta che la maggioranza degli italiani
non crede più che l'Italia sia un paese democratico.
I dati non lasciano adito a dubbi: un italiano su due è
convinto che non serva a nulla andare ancora a votare perché
il voto non offre più ai cittadini la garanzia di influire
sulle scelte politiche ed economiche del Paese. Sei elettori su
dieci dichiarano apertamente di essere insoddisfatti del tasso di
democrazia riscontrabile in Italia.
Il 58% degli italiani imputa ai partiti il sequestro del voto
politico e referendario, l’abitudine dei politici di agire
indipendentemente dal mandato ricevuto dagli elettori, la continua
violazione del patto tra elettore ed eletto. Secondo i dati del
1998, che attualmente devono considerarsi peggiorati per quanto
riguarda il distacco tra popolazione e partiti, a dichiararsi insoddisfatti
del grado di partecipazione democratica nel nostro Paese sono il
75% degli elettori del Polo, il 62% dei leghisti e il 43% degli
elettori del centro-sinistra.
Insomma, sono già venti milioni gli italiani che rifiutano
l’attuale modo di essere dei partiti. Su 100 elettori, 34
preferirebbero il metodo referendario se solo si garantisse l’intangibilità
del risultato, 41 contestano comunque l’incoerenza della partitocrazia.
Alla protesta di questi venti milioni di italiani non è
stata data altra risposta se non quella dei peggiori ferrivecchi
della Prima Repubblica, Scalfaro in primis: “Chi non ama i
partiti non ama la democrazia”.
Il Terzo Stato la pensa diversamente. Amare la democrazia significa
demolire questi partiti e sostituirli con altri che rispettino la
democrazia al loro interno, non si approprino delle prerogative
dello Stato, non si dedichino alla caccia del potere rubando a man
bassa.
Nell’esprimere questa rancorosa protesta, molti si domandano
come si sia arrivati all’attuale aberrante sistema, altri
denunciano casi così plateali di degenerazione del potere
che la prepotenza dei partiti appare intollerabile anche ai meno
esperti di cose costituzionali. La maggioranza infine discute sul
che fare, rendendosi conto, fino alla macerazione, che la corruzione
dei partiti trionfa perché ha infettato “l’altra
parte della nazione”, quella che davanti alla malversazione
politica non protesta, ma si adatta, si insinua, cerca e trova una
connivenza, traendone un utile.
È lo spettacolo doloroso dell’altra parte (meno di
metà) degli italiani a fare alzare le grida più inferocite.
La minoranza cinica che consente la sopravvivenza del regime, vendendosi
a lui.
Al nuovo Terzo Stato, sfruttato e ricattato, tenuto a freno con
la minaccia del fisco e la droga delle trasmissioni televisive,
mi rivolsi, tramite il mio giornale carbonaro, conscio di emulare
i russi del samizdat.
Restava da chiarire perché il termine “qualunquista”
fosse diventato, nel volgere degli anni, sempre più dispregiativo.
La scomunica era avvenuta già nel dopoguerra quando Giannini,
che da bravo teatrante aveva un fiuto animalesco per le folle, si
era accorto tra i primi che l’Italia “liberata”
stava diventando di nuovo un regime: il regime antifascista, messo
in piedi da coloro che non avevano saputo opporre al fascismo null’altro
che l’Aventino. Quelli che egli chiamava “politici professionisti”
e che già si rivelavano per nulla diversi, in fatto di malcostume
e brama di potere, dai loro predecessori.
I sei partiti antifascisti riuniti allora nel Cln avrebbero in
seguito generato l’Arco costituzionale, continuando a tenere
l’Italia divisa in due. L’epurazione degli ex-fascisti,
finita in burletta, configurava già allora gli esiti di Tangentopoli,
con i pesci grossi messi in salvo dal sistema e i piccoli finiti
in carcere. Nasceva già allora il distacco tra Paese legale
e Paese reale che i politologi avrebbero scoperto mezzo secolo dopo.
Giannini ebbe una visione profetica della pseudo-democrazia che
stava prendendo piede e per questo fu ghettizzato. Quando fondò
un partito portando più di trenta deputati in Parlamento
fu prima fagocitato e poi scaricato dalla Dc. Ma la sua idea semplice
sopravviveva.
“Assistiamo all’ignobile spettacolo di un arrivismo
spudorato, al brulicare di una verminaia di ambizioni, a una rissa
feroce per conquistare i posti di comando dai quali poter fare i
propri affari e il proprio comodo. Questa rissa si svolge tra uomini
politici professionali che vivono di politica, che non sanno far
altro che politica di mestiere… Noi non abbiamo bisogno che
di essere amministrati e quindi ci occorrono degli amministratori,
non dei politici. Ci vogliono strade, mezzi di trasporto, una moneta
modesta ma seria, una politica rispettabile che ci renda sicuri
dello scarso bene rimasto e ci incoraggi a crearne dell’altro
liberandoci da timore di potere esserne spogliati da nuovi brigantaggi
dello Stato-partito”.
Ecco la filosofia di Giannini: liberalismo popolare, lotta alla
partitocrazia e alle divisioni ideologiche. Modernissimo, pericoloso
per i partiti-greppia, quindi scomunicato, irriso, violentato storicamente
con una paroletta: “qualunquista”.
Oggi molte cose sono cambiate: talune in meglio, molte altre in
peggio. Ma quel che conta è che il regime della partitocrazia
si è consolidato e la spaccatura tra Paese legale e Paese
reale è diventata insanabile. È alle vittime di questo
nuovo regime perfettamente modellato, il regime post-fascista, che
ho dedicato le lettere che seguono, ricevendo in risposta una valanga
di missive, parte delle quali sono qui riprodotte.
Tra le varie domande che mi ponevano i lettori nei giorni della
rifondazione di Uq, la più preoccupante era questa: avendo
una base di lettori certa, mi sarebbe stato concesso dal “sistema”
di raggiungerla? Più semplicemente: era ancora possibile,
in Italia, dar vita ad un giornale non di regime che potesse misurarsi
con quelli finanziati e protetti dalla partitocrazia?
Le risposte vennero presto, e a catena. Il socio di maggioranza
del giornale si dimise poche ore prima della firma, su pressione
di alcuni politici del Polo. Nessuna concessionaria, tra le tante
consultate, accettò di raccogliere pubblicità per
l’Uomo qualunque, adducendo motivazioni strettamente politiche
(“Chi è la forza politica referente?”).
La Rai si rifiutò di trasmettere gli spot per il lancio
del giornale, per i quali avevamo già pagato 400 milioni,
bocciandone il testo perché parlava di “cittadini stanchi
della delinquenza” (Alle quattro interrogazioni parlamentari
presentate su questo abuso dell’Ente di Stato il ministro
Maccanico rispose in modo penoso, riconoscendo valore di legge a
un regolamento interno della Rai, quando il giornale stava già
chiudendo, un anno dopo).
Alla nostra richiesta di sgravi sulle tariffe telefoniche, previsti
per tutti i giornali a tiratura nazionale, il Ministero delle Poste
non aveva ancora risposto al momento della chiusura del giornale
nel novembre del 1998.
Benché le nostre tirature iniziali superassero le ottantamila
copie, centinaia di edicolanti “non trovavano” il giornale
sotto il loro bancone quando il cliente lo richiedeva e i più
“politicizzati” si rifiutavano di esporlo. Nell’arco
di 52 settimane, nessuno dei duecento quotidiani e periodici che
ricevevano Uq in abbonamento gratuito dedicò un articolo
al nuovo nato (salvo qualche sporadica citazione). Ciò avveniva
nello stesso periodo in cui il Corriere della Sera pubblicava due
articoli la settimana invitando gli italiani a contribuire col loro
denaro al salvataggio de “Il Manifesto”, minacciato
di chiusura per mancanza di mezzi.
Le copie pilota de l’Uomo qualunque regolarmente inviate,
anche con un costoso servizio aereo, alle varie edicole televisive
dei canali Rai e Fininvest non ebbero mai l’onore di comparire
sul video (Qualcuno dice una volta, un giorno imprecisato, a notte
fonda).
L’elencazione potrebbe continuare, ma qui mi fermo. Il giornale
a causa del muro di silenzio che gli fu subito alzato attorno con
metodi da regime e di una palese povertà di mezzi rimase
a lungo in difficoltà. Poi, grazie al “a bocca a bocca”,
al tam tam, improvvisamente cominciò a crescere, nell’agosto
del 1998, con un sorprendente aumento di vendite del 30%, in piena
estate, e continuò così, finché in novembre,
finiti i denari e dileguatisi i soci, evidentemente digiuni di editoria,
fu chiuso proprio quando stava decollando.
Invano la redazione venne invasa, in quei giorni, da pacchi di
fax di solidarietà e da assegni bancari di volonterosi lettori
che reclamavano la resurrezione del loro giornale. La nostra sorte
era segnata e assomigliava molto a quella di Radio radicale.
Straordinariamente, il settimanale aveva stabilito, fin dall’inizio,
una perfetta sintonia con le avanguardie di quel grande popolo di
renitenti al regime che va tuttora aumentando. Ed è con queste
migliaia di lettori che il dialogo si è sviluppato, per un
lungo anno, in un crescendo degno di grande attenzione.
Questo grande pubblico di renitenti alle urne oggi si domanda che
altro gli resti se non attendere l'implosione del sistema, magari
favorendone l'avvento.
Diversamente da quanti vogliono la distruzione di questa democrazia
(secondo la filosofia mai rinnegata delle Br) la metà degli
italiani che attende la rivoluzione liberale ne vuole l'instaurazione.
Perché, a guardar bene, nell'Italia vinta del dopoguerra,
la vera democrazia si è solo intravvista.
-» Perché
mezza Italia non vota più, di Lucio Lami
146 pag., euro 15,49 (al aprile 2008)
Spirali, 2000 (Prima edizione)
ISBN: 9788877705464
Cliccare
qui per acquistare il libro.