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Il paradiso violato

In copertina: l'autore, bambino, sfollato a Varano, nei campi del mezzadro Fortunin

(Di seguito si propongono l'introduzione e il primo capitolo)

Un'infanzia inimitabile

Copertina - Il paradiso violatoL'idea di raccontare la mia infanzia da sfollato, durante la seconda guerra mondiale, in un paesino del parmense e precisamente a Varano Marchesi mi venne, a metà degli anni Ottanta, a Viamao, un villaggio sperduto nel sud del Brasile, poco lontano da Puerto Alegre. Viamao fu una delle ultime tappe dell'avventura sudamericana di Garibaldi e del suo amico carbonaro Luigi Rossetti. Quest'ultimo, che si batteva per i repubblicani, localizzato da una banda di volontari al servizio dell' imperatore, fu alla fine circondato da soldati a cavallo, trapassato da una lancia, decapitato. La sua testa, infilzata su una picca, venne portata per la città come un trofeo.

Direte: che c'entra Viamao con Varano? C'entra, perché mentre visitavo la piazza dove avvenne il martirio di Rossetti, mi accorsi che la chiesa davanti alla quale era avvenuto il fatto di sangue era una copia esatta di quella di Varano.

La facciata bianca, segnata dal tempo e percorsa da crepe era incredibilmente uguale a quella della parrocchiale varanese: non di quella d'oggi, un po' anonima e in mattoni rossi, ma di quella della mia infanzia, quando ancora c'era l'antica parte anteriore della chiesa seicentesca, bianca, con le sue appendici laterali spagnolesche, il portale di quercia, le finestre con le inferriate in ferro battuto e il sagrato erboso cintato di gelsi.

La perfetta somiglianza mi diede subito un'emozione forte, la stessa che ho provato mille volte, viaggiando per il mondo come inviato e corrispondente di guerra, ogniqualvolta un panorama, una casa, un prato, un filare d'alberi mi riportavano con la memoria al paesino dove nel 1941 ero stato accolto da lontani parenti, bambino di città sottratto ai pericoli del conflitto.

Varano ha rappresentato, per me, l'imprinting, il luogo della scoperta della vita, gli anni di un' infanzia alla Rousseau, a contatto con una civiltà contadina rimasta quasi immutata dal secolo antecedente, dove il processo biologico era scandito dalle stagioni, la giornata dal lavoro dei campi, gli affetti dalla comunione della gente, la pietà da un sentimento religioso profondo e collettivo.

Su questo paesaggio, lo stesso dell'Angelus di Millet, avrei visto abbattersi, quando meno me lo aspettavo, il maglio della guerra, con i suoi lutti e le sue barbarie, i suoi episodi straordinari di violenza e di disperazione, destinati a lasciare, in quel contesto bucolico, segni indelebili come di un' antica pestilenza.

Raccontare la «mia» Varano significa raccontare la storia di una generazione, quella dei ragazzi abituati ad andar per nidi e che presto scoprirono una realtà incredibile: i bombardieri che passavano alti, come aquiloni d'acciaio diretti alle città, gli spezzoni caduti per caso tra quei casolari vissuti per secoli nel silenzio, gli Sten trovati nei fienili col caricatore innestato, le Camel odorose di miele, piovute dal cielo in lattine di alluminio, le colonne sferraglianti dei rastrellatori tedeschi e italiani, assetati di vendetta e i gruppetti allupati dei partigiani, quelli veri di cui si conosceva spesso la sorte infelice e quelli fasulli che bussavano di notte per rubare nella case e nei caseifici.

Se gli sfollati adulti cercavano con ogni stratagemma il modo per sopravvivere alla tragedia in cui erano immersi, i bambini che non si rendevano conto fino in fondo della realtà incombente, fluttuavano tra una vita bucolica, simboleggiata dal pane bianco cotto in casa, e i repentini risvegli per fatti traumatizzanti. Il nostro paradiso si stava sgretolando a causa di una tragedia di cui non conoscevamo i contorni, ma di cui sentivamo i rumori forieri, come l'annuncio di una tempesta.

Di quegli anni, la mia generazione conserva ricordi velati dal tempo, ma anche tracce subconscie che le hanno condizionato la vita. Ricordi felici di giornate tra i covoni di grano o sotto i filari d'uva, ricordi di vendemmie, di trebbiature, di sagre, di rogazioni cantate tra i campi. Ma anche ricordi di trambusti notturni improvvisi, di irruzioni armate, di morti ammazzati allineati sotto le arcate del camposanto, di tam tam in ore inconsuete, emessi da radio nascoste negli armadi, tra pigne di lenzuola odorose di lavanda.

Memorie incancellabili di testimoni troppo giovani, coinvolti in eventi di cui non erano responsabili, ma che sarebbero stati chiamati a giudicare, in nome dell'innocenza perduta.

La storia di Varano è la storia di mille paesini italiani strappati dalla guerra alla loro vita naturale. La storia dello sfollato di città, che aveva imparato a correre nei campi a piedi nudi e a raggiungere il fumoso caseificio per magiare il «tosone» (i ritagli avanzati dalla lavorazione del formaggio), è la stessa di migliaia di figli della guerra, che allora non potevano capire, ma che dopo avrebbero riflettuto a lungo, nel tentativo, non sempre possibile, di far coincidere i loro sempre vivi ricordi, con la versione ufficiale dei fatti.

 

Il primo capitolo

Una canonica come casa

Allo scoppio della guerra i miei genitori abitavano a Modena ma stavano per ritornare a Milano. Quando il treno si mosse sentii una fitta al cuore ma non piansi. Mia madre sotto la pensilina si asciugò gli occhi con una mano mentre con l'altra reggeva mia sorella, di pochi mesi. Mio padre agitava vistosamente il braccio ma aveva il volto teso. Ero il primo a partire da sfollato. Mia sorella sarebbe partita l'anno dopo, per Busseto, sempre da parenti di mia madre.

Quando il treno cominciò a inoltrarsi nella campagna, staccai la testa dal finestrino e guardai zia Emma, la «zia di Varano», seduta di fronte a me. Non l'avevo mai vista, prima di quei giorni. In realtà era una prozia, una sorella di mia nonna, già sulla quarantina, una bellezza che sfioriva, nubile, maestra. Vestiva di grigio, con un colletto di pizzo bianco, portava un piccolo cappello e aveva un'aria dolce e al tempo stesso severa.

A Parma scendemmo per prendere una corriera azzurra, col cofano lungo e stretto e una ringhierina sul tetto per tenere il carico delle valigie. Era stipata di vecchi e di contadine. Quando, dopo Medesano, imboccò la strada sterrata, cominciammo a viaggiare in una nube di polvere bianca come la calce che si spargeva sugli argini, infarinandoli. Varano era vicina.

Quando, dopo Cella, la valle cominciò a restringersi, zia Emma disse: «Il prossimo paese è il nostro, Varano Marchesi. È in mezzo ai boschi, ti piacerà».

Avevo una certa ansia di arrivare e di conoscere l'altra zia, Antonietta, e soprattutto il fratello delle due, l'arciprete, del quale Emma parlava con compunzione, chiamandolo Don Maldotti o, più raramente, Don Igino. Cercavo di immaginare la loro casa, dov'eravamo diretti, alla quale la zia si riferiva spesso usando un termine a me sconosciuto: «la canonica».

Varano era (ora è cambiato) un paese filiforme su due livelli. Le sue case si allineavano quasi tutte lungo la strada calcinata che sembrava morire poco oltre le ultime cascine sottomonte, dopo l'incrocio per Salso. Arrivando, si incontrava dapprima il fondovalle con l'agglomerato di case attorno al torrente Recchio, dominato dai resti di una fortezza cinquecentesca trasformata in caseificio e, subito dopo, inerpicandosi per una salita che la corriera affrontava ansimando, si arrivava in una zona piana, assolata, con rare costruzioni. Passando tra la scuola e il palazzetto rosso del «podestà» si giungeva al sagrato della chiesa parrocchiale, dove finalmente l'autobus si fermava ansando.

 

L'antica chiesa, la cui vetustà contrastava col fulgore degli oleandri, non guardava la strada ma verso le colline, in direzione del tramonto. A separarla dal raro traffico dei carri agricoli c'era un piccolo sagrato erboso cintato da paracarri. Sul lato destro, essa si congiungeva con la canonica dalla cui mole era sovrastata e che aveva (e ha) una facciata percorsa da grandi arcate bordate di mattoni, sotto le quali stavano lo scalone d'ingresso e un ballatoio spazioso, adorno di gerani, dal quale si accedeva all'abitazione. Più in alto, sotto le grondaie, una fila interminabile di finestrine ad arco riprendeva il motivo del ballatoio sotto stante ingentilendo la massiccia costruzione.

Questa sproporzione di volumi tra la casa di Dio e quella dei suoi ministri, era dovuta, come mi avrebbero spiegato più tardi, al fatto che la canonica era stata ricavata da un fortilizio militare vecchio di secoli. Di fronte ad essa, al di là di un vasto cortile, c'era un fabbricato che comprendeva la casa di un mezzadro, le stalle e i fienili, collegati a loro volta alla canonica da un rustico ad archi, adibito a pollaio, che chiudeva la corte sul terzo lato, facendone un piazzale che ancora somigliava a una piazza d'armi.

Intimidito dal luogo, salii le scale tenuto per mano dalla zia. Camminammo sulla terrazza-ballatoio, inondata di sole, ignorammo il portone d'ingresso e arrivammo fino in fondo, dopo l'ultima arcata, dov'era la porticina di servizio, che dava sulla cucina.

Zia Antonia mi venne incontro festosa, come mi conoscesse da sempre, ispirandomi subito fiducia. Era una donna piuttosto robusta, non alta, leggermente ricurva, più vecchia di zia Emma ma con i modi di una nonna premurosa, il volto largo e sorridente, la fronte sempre imperlata di sudore o di tintura per i capelli. Non smetteva di farmi complimenti dando per scontato che comprendessi il parmigiano, unica lingua che avrebbe mai usato e della quale si serviva per quelle bordate di umorismo che erano, come avrei presto imparato, la sua ricetta di vita.

Mi spiegò subito che sarebbe stata lei ad accudirmi, perché lei era la donna di casa. Zia Emma aveva altri compiti, più intellettuali, e mi avrebbe seguito negli studi, quando non avesse avuto impegni con la scuola. Erano entrambe rimaste misteriosamente nubili. Come Marta e Maria del Vangelo, si erano divisi i compiti, accanto al fratello prete, a seconda delle reciproche attitudini.

E lo zio?

Don Igino arrivò di lì a poco. Aveva il volto largo di zia Antonia ma un' espressione più severa. I capelli candidi tagliati a spazzola, la chierica larga e ben rasata, la talare un po' lucida sui gomiti. La figura ieratica e il collarino candido gli davano un'aria così austera da mettermi soggezione.

«Noi due diventeremo amici», mi disse con voce bonaria. Poi infilò una mano in un' apertura laterale della veste, si piegò annaspando, quasi che la tasca non avesse fondo, ed estrasse una mela profumata, porgendomela.

Poco dopo, cominciò la visita di quello che avrei, da quel momento in poi, considerato il mio castello.

La cucina di zia Antonia corrispondeva esattamente a quella di certe locande frequentate dai Tre Moschettieri, così come me le immaginavo, quando mia madre mi riassumeva, con abbondanti approssimazioni, qualche pagina di Dumas. Enorme (così almeno mi appariva), mediamente illuminata, di un bianco un po' affumicato, col soffitto sorretto da vecchie travi, era dominata da un camino tanto ampio che la zia vi si inoltrava spesso tutta intera per appendere le pentole alla catena. Alla sinistra del camino una vetrata smerigliata celava alla vista un secchiaio di pietra bigia, con una pompa a mano per l'acqua, che d'inverno spesso gelava, cosicché bisognava andare in cortile ad attingere dal pozzo con i secchi. Sul lato destro, dove c' era la stufa a cerchioni, due finestre si affacciavano sul cortile e quella più vicina al camino aveva il davanzale all'altezza del tetto dei pollai sottostanti, dal quale andava e veniva Ciro, il gatto soriano di casa. Alla parete di fronte, due grandi credenze di modesta fattura ospitavano vasellame vecchio di decenni, sobrio ma di buona qualità, e suppellettili contadine, come la grande grattugia a manovella, in legno chiaro o la batteria di ferri da stiro a carbone, compreso quello lucidissimo, destinato ai paramenti.

 

Il paradiso violato.
128 pag., Euro 12,91 (al 3 maggio 2007)
Edizioni Ares, 2001
ISBN: 88-8155-211-6
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