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Morire per Kabul

Una lunga marcia afghana

(Di seguito si propongono l'introduzione e il diario del ventottesimo giorno)

Introduzione

Copertina - Morire per Kabul - di Lucio LamiQuesto diario è stato redatto, sera dopo sera, durante il viaggio che ho effettuato, da clandestino, alla fine del 1981, nell’Afghanistan occupato dalle truppe sovietiche. Un viaggio al seguito dei guerriglieri, durato oltre un mese e portato a termine, tra notevoli peripezie, con un solo intento: toccare con mano la realtà di questo nuovo Vietnam dimenticato dall’Occidente. Per tutta la sua durata, tre domande mi hanno assillato. Le stesse – credo – che si porrà il lettore: come è potuto accadere tutto questo? Qual è la reale situazione dell’Afghanistan, oggi? Quali prospettive può avere per il futuro?
Il diario risponde almeno in parte a questi interrogativi; tuttavia, per inquadrare l’esperienza cronistica nella più vasta realtà degli avvenimenti, è bene ricordare qualche dato storico essenziale.


La società afghana è vissuta per secoli come congelata nel tempo, in un ambiente naturale nel quale le montagne impervie rendevano quasi impossibili le penetrazioni dall'esterno. Coacervo di etnie, il paese è rimasto allo stadio della civiltà tribale fino agli Anni Sessanta, superando indenne l'era delle colonizzazioni, grazie al ruolo di cuscinetto che russi e inglesi gli riconobbero dopo aver tentato invano la politica della penetrazione. La mancata colonizzazione e la neutralità al tempo dei grandi conflitti mondiali hanno avuto un solo rovescio della medaglia: il mancato sviluppo del paese, rimasto fino alla metà di questo secolo allo stadio pastorale.

È solo con le prime e malcomprese riforme di re Mohammed Zahir Shah (1933-1973) e con quelle appena tentate del generale Daud (1973-1978) che il paese sembra imboccare, tra molti contrasti, la via dello sviluppo economico. Daud rivendica anche le terre assegnate al Pakistan e con i trattori chiede carrarmati, che gli Stati Uniti gli negano. Lo accontenta l'URSS che da anni infiltra uomini nel "vuoto afgano". Nel 1955 Bulganin e Kruscev visitano Kabul, dove pure si continua ad accettare l'aiuto economico occidentale. Ma già nel 1966 i "prestiti" sovietici superano quelli di tutti gli altri paesi: nel '71 essi rappresentano la fonte del 60% degli investimenti afgani.

L'Afghanistan scivola nell'orbita sovietica e l'"aiuto fraterno" apre la strada ad un colonialismo di tipo classico: il 52% dei tecnici arriva da Mosca che si accaparra l'esclusiva dello sfruttamento delle risorse naturali, a cominciare dal gas. L'URSS avvia anche la preparazione dei quadri dirigenti destinati a rendere la penetrazione sovietica irreversibile; tra il 1955 e il 1975, 45 mila afgani vengono addestrati direttamente dai sovietici, in patria o nell'URSS. A partire dal 1960 tutti gli ufficiali afgani vengono spediti a Mosca per apprendervi l'ideologia comunista e lo spirito di fedeltà al paese guida. Sono questi ufficiali che già nel '73 tentano il primo colpo di mano, ma Daud, che pur tardivamente si è accorto delle vere intenzioni di Mosca, si rivolge altrove, soprattutto all'Iran che gli offre un credito di due miliardi di dollari, il 50 % in più di quanto l'URSS non abbia messo a disposizione in diciassette anni. Daud tratta finalmente anche col Pakistan alla ricerca di una soluzione negoziata dei problemi territoriali e intanto rispedisce a Mosca ottocento dei mille consiglieri che gli sono stati messi alle costole. Troppo tardi. Il Cremlino, facendo leva sulle due fazioni del partito comunista locale, il Parcham (diretto da Karmal) e il Khalq (diretto da Taraki) crea una tenace opposizione facendo rappacificare i due dissidenti. Nasce così il PDPA (Partito democratico popolare afgano) che pur non avendo che diecimila aderenti può porre le basi del colpo di stato. Daud viene assassinato (aprile 1978) e il PDPA conquista il potere con un golpe. I sovietici ritornano in massa: tremila consiglieri riprendono in mano le leve dello stato, mentre un servizio di sicurezza, completamente controllato da Mosca, instaura il terrore.

L'Afghanistan entra nel novero dei satelliti sovietici, grazie alla firma di un trattato ventennale di amicizia e a 58 accordi commerciali firmati a partire dalla fine del 1978. Nasce la resistenza con le grandi sollevazioni delle regioni come il Paktia, il Kunar, l'Hazaradjat, mentre cominciano le diserzioni in massa dall’esercito. La popolazione non tollera le riforme di un governo marxista e ateo che si è imposto con la forza all'ombra dei colonizzatori. Il governo di Taraki-Amin, succeduto a quello di Daud, entra in crisi. Amin elimina Taraki e Karmal elimina Amin nel corso di una guerra mai spenta tra le fazioni arrivate al potere. Mosca avalla, a tempo di record, ogni cambiamento badando a rafforzare il suo potere ed intervenendo sempre più massicciamente a puntellare la situazione, fino a inviare le sue divisioni aviotrasportate. Nel marzo del 1980 i soldati sovietici in Afghanistan sono già centomila e Karmal non è che una testa di paglia che copre l’azione dei nuovi padroni. La presenza russa si rivela per quello che è: un’impresa coloniale preparata per trent’anni in un paese che non è mai stato colonizzato.

 

Ventottesimo giorno

Scrivo in quello stato di sovreccitazione psichica che viene in battaglia e che non avevo mai conosciuto. Ieri sera abbiamo lasciato il nostro rifugio verso le 17. Ruhani era contento di aver reperito un pullmino, un tempo in dotazione a una scuola, con il quale ci porterà fino a pochi chilometri dalla città e soprattutto ci ricondurrà a distanza di sicurezza dopo l'attacco, favorendo la difficile manovra di sganciamento. Il veicolo è camuffato da automezzo agricolo e sul tetto ha un carico di legname. Prende una strada che sembra il greto di un fosso e scende. Ci scarica a cinque chilometri da Ghazni, alla quale si è avvicinato nascosto dentro un canalone naturale.

Il cielo è torvo, ma il vento tende a sgombrarlo dalle nubi. Il commando è composto da una sessantina di uomini che si sono ammassati inverosimilmente nell’automezzo.

Ci scaricano presso un casolare, sotto un enorme albero rinsecchito nero di corvi. Ai suoi piedi viene steso un mantello: Ruhani e il "comandant" vi si inginocchiano per primi, in preghiera. Poi vengono impartiti gli ordini e i mujaheddin nascondono le armi sotto i patù e si avviano, a due a due, verso la città, come contadini che ritornino dai campi. Per ultimi partono i due comandanti dietro ai quali marciamo Jacques e io. La periferia è grigia, fatta di case-fortezza e le strade scorrono tra alte mura di cinta. Due elicotteri si alzano in volo e ci passano a più riprese sulle teste. Dico a Ruhani: "Ci buttiamo nel fosso?" Dice: “Se li insospettiamo è finita." In pochi minuti il cielo imbrunisce e gli elicotteri rientrano.

Facciamo il nostro ingresso nelle strade deserte del capoluogo, camminando con passo felpato. Presso una moschea ci viene incontro un vecchio che ci stava aspettando e ci fa cenno di seguirlo. Entriamo in un orto e poi in un portone, infine in una stanza grande e ornata di piante verdi. Il vecchio ci serve la cena. Guardo allibito Ruhani che mi previene: "La notte è lunga e non si combatte a stomaco vuoto. Anche i mujaheddin sono andati a mangiare col 'comandant'."

Il vecchio racconta: Ghazni viene attaccata ogni notte, ci sono anche bande di guerriglieri che di giorno lavorano in città e di notte sparano. I kalkisti, che erano dodicimila, ora sono soltanto duemila: molti sono morti, molti sono passati alla resistenza; li hanno rimpiazzati i russi. La città vive col coprifuoco, scarseggia l'acqua, le è stata tolta la luce elettrica che usano solo i sovietici.

Usciamo nel buio, verso le 21: il cielo si è rasserenato ma la luna è nascosta dalle montagne. Si odono raffiche di mitraglia, perché qualche altro commando è già al lavoro. Un mortaio russo spara colpi radi, forse di inquadramento. Di tanto in tanto, un bengala illumina a giorno l'abitato. La paura prende la forma di un sottile nervosismo: Jacques mi chiede una sigaretta e io mi sorprendo a insultarlo, sottovoce, stizzosamente.

Camminiamo in fretta verso la parte della città che si trova in collina: le case sono già sbarrate; ad ogni angolo mi aspetto una sorpresa che fortunatamente non viene. Dall'alto, vediamo il cuore della città occupato dalle installazioni militari russe, illuminate a giorno dalle fotoelettriche e cintate da reti metalliche e da reticolati. Due fari sciabolano luce sui quartieri bui.

Marciando al riparo di un muretto, arriviamo ad una moschea dove mani invisibili ci aprono la porta. Ci fanno sedere in un angolo, al caldo, mentre i due comandanti e i vari aiutanti siedono a rapporto, esaminando le informazioni fresche che la gente del luogo ha fornito. Gli obbiettivi sono due: distruggere la scuola con chi c'è dentro, catturare, se possibile, un po' di armi. Usciamo nel vento freddo e riprendiamo il cammino: adesso le porticine degli orti si aprono come per incanto e noi ci avviciniamo alla zona militare mimetizzati dagli alberi da frutta e dalle casupole disabitate. Quando ci fermiamo, dietro un rudere, siamo a poche centinaia di metri dalla scuola, che nereggia come un fortino ad ogni bagliore. Pochi cenni di mano e le squadre si dividono, partendo in direzioni opposte per aggirare l'obbiettivo. Ci avviciniamo un altro poco e ci fermiamo dietro un muretto. Il luogo diventerà il punto di rifornimento di munizioni per le due squadre.

Il buio è profondo e il gelo aumenta. Ruhani comanda il gruppo di destra, Barakot quello di sinistra: si sono accordati per riunirsi sull'obbiettivo.

Passa così quasi mezz'ora, poi una tracciante rossa lacera il cielo e un grido terribile riecheggia nella valletta al centro della quale c'è la scuola: "Allah-o-akbar!" ("Dio è grande").

È il segnale. Vedo, alla mia sinistra, il mitragliatore cinese della squadra di Barakot emettere lingue violacee. A destra aprono il fuoco i Kalashnikov di Ruhani. Subito, una mitragliatrice pesante risponde dalla scuola e l'aria si riempie di fragore. Il crepitio aumenta e gli attaccanti si avvicinano sempre più all’obbiettivo. A tratti, il fuoco sembra diminuire, ma poi riprende con maggiore intensità, sempre più incalzante. Le mitragliatrici, dalla scuola, intensificano ora la risposta, con raffiche sempre più lunghe. Il cielo si illumina e le traccianti indicano con maggiore insistenza gli obbiettivi. Poi, all'improvviso, le prime esplosioni, fragorose. Sono gli anticarro dei mujaheddin che centrano la costruzione: vampate rosse illuminano l'edificio. Le esplosioni si moltiplicano. Un uomo, trafelato, ci raggiunge: chiede altri razzi. Se li carica sulle braccia e riparte correndo, senza la minima precauzione.

È l'assalto finale. Guardo l'orologio e mi accorgo che si combatte da più di un'ora. I boati si moltiplicano e d'un tratto vedo tutte le finestre dell'edificio illuminarsi a giorno. Una granata è esplosa all'interno. Grida di dolore si levano ripetutamente, mentre all'esterno riecheggia ancora: "Allah-o-akbar". La scuola brucia, ma una mitraglia sul suo tetto non tace. Ed ecco, d'un tratto, arrivare Ruhani con lo sguardo allucinato, seguito da Karim, un ragazzone, che si trascina sulle spalle un corpo inerte: lo tiene per le braccia e le gambe strisciano al suolo. È Barakot. La mitragliatrice superstite lo ha colto mentre, granata in mano, stava penetrando nell'edificio in fiamme.

Il cielo è bianco di bengala, il sentiero è rigato di sangue. Il comandante ha il ventre squarciato da una raffica e il sangue esce a fiotti così copiosi, che scorre sulla schiena di Karim e cola a terra. Il ferito viene deposto al suolo: ha perso il turbante e il suo aspetto è quasi infantile. Nonostante la gravità della ferita, scalcia e ripete ossessivamente una frase. Che dice? "Portatemi via con voi." Non ci sono infermieri, né medici, né medicinali, né barelle. Si tenta di portare il comandante a braccia, ma cade. Allora lo si depone in un patù, ma il mantello si squarcia e Barakot rotola lungo il sentiero. Qualcuno recupera un pastrano entro il quale viene deposto il ferito.

"Portatelo all’automezzo," ordina Ruhani, mentre dà disposizioni per il fuoco di copertura. Un gruppetto di guerriglieri sta intanto rientrando con un altro ferito: è un giovane mujaheddin, con la coscia trapassata da un proiettile. "È uscita la pallottola?" "Sì." "Allora te la sei cavata."

Ruhani ci dice di andare con gli uomini che trasportano il comandante. Riprendiamo la via degli orti, mentre raffiche sibilanti passano fischiando sulle nostre teste.

Gli uomini corrono, tenendo per i lembi il pastrano dentro il quale rantola Barakot. Per due volte il corpo ruzzola fuori e per due volte viene rimesso nel cappotto, ormai intriso di sangue.

Una luna enorme, appena spuntata tra i monti, illumina la strada. Raggiungiamo la periferia: il ferito viene deposto a terra e qualcuno va a bussare ai portoni delle case. Nessuno risponde. Poi, finalmente, c'è chi apre: viene recuperato un lettuccio di stuoie, di quelli che gli afgani usano tenere davanti a casa per la siesta. Il ferito, avvolto nelle coperte, viene sistemato sulla branda, che quattro uomini si issano sulle spalle.

Prendiamo, quasi correndo, la via verso il casolare dove ci attende l'automezzo. Il corteo ansima e getta ombre lunghe sul bianco della strada. Ripercorriamo il cammino lungo i muri di cinta delle fattorie dall'alto dei quali i cani latrano selvaggiamente al nostro passaggio. Le traccianti rosse sembrano inseguirci, come comete. I lamenti di Barakot si fanno sempre più radi e dalla barella scende ora, a fiotti, un acre odore di orina.

La piccola comitiva procede ansimando; nessuno parla. Ad un tratto, gli uomini che portano il ferito chiedono il cambio: depongono la barella a terra. Mi avvicino e scopro il volto del comandante: guarda il cielo con fìssità. Interrogo con lo sguardo Ruhani che annuisce. Qualcuno si toglie il turbante e lo lega attorno al viso del morto, in modo da chiudergli la bocca. Ruhani gli abbassa le palpebre. "È lassù" mi dice Ismael, indicando il cielo stellato, nel quale sta planando un Ilyushin, con le luci rossa e blu che lampeggiano.

Adesso procediamo più lentamente. Al casolare depongono il comandante sotto l'albero rinsecchito che lo aveva visto pregare qualche ora prima. Arriva anche il secondo ferito, portato a spalle per chilometri. Mi chiede la sigaretta che sto fumando e gliela metto in bocca. Sembra sereno, ma quando gli dicono che Barakot è morto si mette a piangere silenziosamente, e getta il mozzicone.

L'autista non ha esitazioni: sale sul tetto del veicolo e scarica la legna, poi, aiutato dagli altri, issa il cadavere sul portabagagli e ve lo lega con una fune. Il ferito, invece, viene fatto salire a bordo dove si ammassano anche tutti gli altri. Partiamo a fari spenti, lentamente. Tutti tacciono e l'odore dolciastro del fumo invade il torpedone. Ad ogni buca del terreno l'automezzo sussulta e i piedi di Barakot sembrano bussare sul soffitto; i nostri occhi si levano in alto, istintivamente.

Arriviamo ad un villaggio dove, non so come, la notizia della morte del comandante ci ha preceduto. C'è gente in piedi, sulla piazzetta. Qualcuno piange. Sono stati avvisati i familiari e sono già arrivate le bambine che all'alba assisteranno alla sepoltura.

La moglie, come vuole l'usanza, è rimasta a casa con la sua disperazione. Il ferito viene affidato a una famiglia amica. Gli altri mujaheddin si disperdono, ripartendo a piedi. Anche noi dobbiamo raggiungere la zona di sicurezza e riprendiamo, in cinque, la via della montagna. Marciamo fino al mattino, quando incontriamo una piccola moschea isolata. Ci gettiamo a terra esausti. Non riesco a dormire. Karim è accanto a me: si guarda l'abito coperto di sangue e dice: "Sorry", quasi scusandosi, prima di voltarsi dall'altra parte e di precipitare in un sonno pesante e agitato.

 

-» Morire per Kabul. Una lunga marcia afthana, di Lucio Lami
Bompiani 1982, De Agostini 1987, Asefi 2001
ISBN: 88-86828-77-7 (Asefi)

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