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            La cacciata dei musulmani dall'Europa 
            
Il Principe Eugenio, il Papato e l'ultima crociata 
              contro i turchi (1683-1718) 
            
(Di seguito si propone il primo capitolo) 
            
Fuga ad oriente 
            
Nell'afosa 
              estate del 1683, la città di Francoforte sembrava sommersa 
              da una marea di profughi che giungevano senza sosta dall'Austria 
              e, in particolare, da Vienna. Sulle strade provenienti da est, interminabili 
              carovane di carrozze, carri, animali da soma procedevano verso la 
              città, tra ali di gente stravolta, mentre centinaia di barche 
              sul Meno ospitavano esuli senza tetto, con le loro scarse masserizie. 
            
A chi li interrogava, gli sbandati rispondevano, 
              con la disperazione dipinta sul volto: "Ci sono decine di migliaia 
              di turchi che assediano Vienna e altre interminabili carovane di 
              musulmani stanno risalendo dai Dardanelli. Dalla capitale, i viennesi 
              sono già scappati in massa; lo stesso Imperatore se n'è 
              andato con la Corte a Passau, dove il suo governo affonda nelle 
              chiacchiere. Se anche venissero concentrate su Vienna tutte le truppe 
              imperiali disponibili, per rompere l'assedio, il rapporto di forze 
              tra i musulmani e i cristiani sarebbe di dieci a uno". 
            
Tra gli sbandati c'era chi sperava ancora in un intervento 
              del Papa, ma i più scettici sembravano ormai rassegnati: 
              "Il Papa si appella al cristianissimo Re di Francia, ma Luigi 
              XIV, che vuole distrutto l'Impero, è ben lieto che l'imperatore 
              Leopoldo venga attaccato alle spalle dai califfi. Il Re di Francia 
              amoreggia da anni con la Sublime Porta". 
            
Non c'erano sono solo i turchi a combattere, con 
              i loro indemoniati giannizzeri agli ordini del Gran Visir, ma anche 
              i magiari, insorti contro l'Impero e ora alleati del Sultano, e 
              poi, il peggio del peggio, gli slavi, soprattutto croati, autori 
              di crudeltà indescrivibili. I profughi li chiamavano "Kuruss" 
              e li temevano più di tutti perché impalavano, arrostivano 
              i prigionieri, li condannavano ad agonie atroci. I cristiani avevano 
              cercato invano di emularli in ferocia, come avevano fatto gli assediati 
              di Kaschan, che avevano arrostito in graticola un prigioniero turco, 
              esponendo lo dalle torri a monito degli assedianti. 
              Paradossalmente, tra quella folla di scampati c'erano anche due 
              aristocratici, in fuga da Parigi, che marciavano in direzione opposta, 
              decisi a raggiungere Wurzburg e di lì la corte imperiale. 
              Erano il principe Eugenio di Savoia, diciannovenne, scappato dalla 
              capitale francese come un ribelle e suo cugino, il principe Conti, 
              genero del Re Sole, che cercava di proteggerlo in quella incredibile 
              avventura. 
            
I due, trovato alloggio per una notte in una locanda 
              sul Meno, furono inaspettatamente raggiunti dai fulmini del loro 
              re, e precisamente dal ciambellano De Raglie, scortato da un drappello 
              di moschettieri, il quale, ignorando ostentatamente Eugenio si rivolse 
              a Conti in nome di Luigi XIV: "Se non rientrate con me a Parigi, 
              immediatamente, la vostra famiglia cadrà in disgrazia e tutti 
              i vostri beni verranno confiscati. Passando il confine e entrando 
              nelle terre dell'Impero di Leopoldo potreste anche essere accusato 
              di alto tradimento, poiché siete un ufficiale di sua maestà". 
            
Conti era pallidissimo. Guardò con pena il 
              cugino e gli disse: "Non posso far altro". Tolse dalla 
              sacca una borsa di monete e dal dito un anello ornato da una vistosa 
              pietra e li diede ad Eugenio. Poi l'abbracciò in silenzio 
              e seguì il ciambellano. 
              Eugenio, ignorato da tutti, rimase solo. La villania che gli aveva 
              riservato l'inviato del Re, ignorandolo, gli ricordava il giorno 
              della sua presentazione ufficiale a Corte. Anche allora Corti aveva 
              cercato di aiutarlo dicendo al Re di Francia: "Questo è 
              mio cugino, Savoia di Carignano, che desidererebbe mettersi al vostro 
              servizio come ufficiale". E il re, che pure lo conosceva fin 
              dalla nascita e che forse avrebbe potuto essere suo padre naturale, 
              lo aveva guardato come fosse trasparente, proseguendo nella sua 
              promenade senza rivolgergli la parola. 
            
 L'odio gli ribolliva nell'anima. Doveva arrivare 
              a Passau, doveva arruolarsi nelle milizie dell'Impero, doveva combattere 
              i turchi finché sarebbe stato possibile rivolgere le armi 
              contro re Luigi, che aveva commentato ironicamente la sua fuga con 
              le parole "Quale perdita!" e aveva mandato a riprendere 
              Conti lasciando lui al suo miserevole destino. 
            
Aveva abbandonato Parigi, il 26 luglio di quel turbolento 
              1683, con pochi denari presi a prestito e l'unico abito che indossava. 
              Il suo magnifico cavallo era un regalo del cugino il quale, prima 
              di lasciarlo, gli aveva donato tutto quello che aveva con sé: 
              mille fiorini e il suo anello. Ma sarebbero bastati per rivestirsi, 
              equipaggiarsi e presentarsi a Corte? 
            
L'indomani si alzò all'alba, fece sellare 
              il cavallo e prese la strada per Ratisbona, raggiungendo il Danubio. 
              Lungo il fiume risalivano nuove torme di sfollati portando le voci 
              di una disfatta imminente delle armate imperiali. 
            
Arrivò febbricitante per la stanchezza. Cercò 
              la casa del conte Tarini, un aristocratico savoiardo per il quale 
              aveva una lettera di presentazione. Lo trovò in grandi ambasce: 
              le voci popolari erano tutte vere, Vienna era sull'orlo della catastrofe, 
              il governo sperava ancora nell'intervento di Luigi XIV, nelle pressioni 
              del Papa, ma s'illudeva. I musulmani si erano fatti arroganti, tanto 
              che il Re di Francia aveva dovuto scusarsi col Divan [1] 
              e col Sultano Maometto IV per aver fatto attaccare dall' ammiraglio 
              Dufresne i pirati che operavano nel Mediterraneo sotto le bandiere 
              turche. 
            
Tarini, che dirigeva da Ratisbona una rete di informatori 
              al servizio del duca di Savoia, Vittorio Amedeo II, nutrì 
              all'inizio qualche diffidenza per Eugenio che era troppo male in 
              arnese e sprovvisto di vere credenziali da parte del cugino torinese, 
              ma presto la situazione fu chiarita. Il 20 agosto arrivò 
              dalla capitale piemontese un messo di Vittorio Amedeo, un certo 
              Carrocchio, con una lettera del duca che invitava Tarini ad usare 
              i massimi riguardi per il giovane appartenente alla sua casata. 
              Alla lettera era unita una cospicua somma di denaro. 
            
Arrivarono anche messaggi incoraggianti da Luigi 
              Guglielmo, margravio del Baden, che era figlio di una zia di Eugenio, 
              e del marchese di Borgomanero, ambasciatore di Spagna presso la 
              Corte di Vienna e amico dei Carignano. 
            
Acquistato un nuovo abito, procuratasi una scorta 
              e munitosi di armi e di cavalli, Eugenio che finalmente si sentiva 
              principe, prese la strada di Passau per raggiungere il cugino margravio 
              dal quale si aspettava di essere presentato all'Imperatore e posto 
              al comando di un reggimento. 
            
Era convinto che un ingaggio da ufficiale non potesse 
              ormai essergli rifiutato, visto che da pochi giorni suo fratello 
              Luigi Giulio era caduto in combattimento, a Petronel, battendosi 
              sotto le bandiere dell'Impero. La notizia di quel lutto era stata 
              una delle cause della sua affrettata partenza. 
            
 Arrivò in città sfatto dalla fatica 
              e come prima cosa si procurò un alloggio per riposare. Era 
              ancora febbricitante e l'agitazione gli procurava insonnia. Stava 
              per iniziare una nuova vita, ma i suoi pensieri non riuscivano a 
              liberarlo da quella passata. Aveva solo vent'anni e la sua giovinezza 
              era stata infelice. 
            
 Si rendeva conto che quella rischiosa fuga stava 
              imprimendo una svolta decisiva al suo futuro. Un distacco forte 
              da sua madre, gran dama di corte, ex amante del re, tessitrice di 
              mille intrighi, genitrice perennemente occupata altrove e tuttavia 
              affettuosa e incombente. 
            
Un distacco drammatico, quasi a tradimento, dal re-padrone, 
              visitatore assiduo, prima, persecutore poi di sua madre, additato 
              da molti, probabilmente a torto, come il suo vero padre, l'onnipotente 
              per il quale aveva avuto, da bambino, un'autentica devozione, ricambiata 
              da un'antipatia manifesta e crescente, trasformatasi presto in indifferenza. 
            
Un addio alla Francia, sua terra natale, della quale 
              tuttavia, da buon savoiardo, non si sentiva figlio, lui, consanguineo 
              dei duchi del Piemonte e pronipote di quel Mazarino che aveva trasformato 
              la Corte del Re Sole in dominio degli italiani. 
              Mettendosi apertamente contro re Luigi, usciva da un universo eliocentrico 
              nel quale l'avvenire dei rampolli dell'aristocrazia dipendeva quasi 
              sempre dai capricci di un sovrano. 
            
Adesso non aveva altro desiderio che di andare a 
              battersi contro i musulmani e per questo leggeva e rileggeva, postillandolo, 
              un libro del quale parlava tutta Parigi: "Della guerra del 
              turco", dell'italiano Raimondo Montecuccoli. Il vecchio feldmaresciallo 
              dell'Impero appariva a lui, e a tutti i giovani di quel tempo, come 
              il modello ideale dell'uomo d'armi. 
            
 Avviato da giovane alla carriera ecclesiastica, 
              a 16 anni Montecuccoli si era arruolato come semplice soldato al 
              servizio degli Asburgo partecipando a numerosi eventi della Guerra 
              dei Trent'anni e diventando presto ufficiale per le sue gesta sul 
              campo. Fatto prigioniero dagli svedesi, aveva per tre anni studiato 
              a fondo le riforme militari di un grande stratega, re Gustavo Adolfo 
              di Svezia. Il risultato di questi studi erano stati i suoi "Trattato 
              della guerra" e "Dell'arte della guerra", considerati 
              capolavori di innovazione dai condottieri di tutta Europa. Tra il 
              1661 e il 1664 aveva comandato le forze cattoliche contro i turchi, 
              sconfiggendo li. Aveva poi rivolto le sue truppe contro gli attacchi 
              della Francia, riuscendo, nel 1673, a ricacciare il generale Turenne 
              oltre il Reno. 
            
Ad affascinare Eugenio era la filosofia di guerra 
              del Montecuccoli; infatti, se per Machiavelli era la politica a 
              dover determinare gli scopi della guerra, per Montecuccoli la guerra 
              trovava ragione d'essere in se stessa, come costante della storia, 
              ed era l'unico strumento capace di definire l'identità stessa 
              dell'Impero. 
            
Eugenio, che da principio aveva aspirato a battersi 
              contro i turchi per il solo fatto che erano alleati del Re Sole, 
              ora si convertiva all'idea della grande difesa della cristianità 
              contro la minaccia musulmana. Dal punto di vista delle tecniche 
              militari, gli aforismi del Montecuccoli gli sembravano punti di 
              riferimento straordinari per il completamento di quella cultura 
              militare di impronta francese che aveva ricevuto dal precettore 
              Sauveur. Lo stratega italiano, infatti, rivoluzionava tutto: la 
              tattica, l'uso dell'artiglieria, l'aumento delle armi da fuoco rispetto 
              alle picche, e soprattutto la logistica. Nello stesso tempo, per 
              Montecuccoli, il Turco diventava il "nemico perenne" del 
              quale venivano esaminati i pregi militari affinché se ne 
              trovasse l'antidoto, poiché "era necessario opprimere 
              o essere oppressi, uccidere o essere uccisi". 
            
  
            
Note: 
            
 1 – Consiglio di governo 
            
  
            
 -» La 
              cacciata dei musulmani dall'Europa. Il Principe Eugenio, il 
              Papato e l'ultima crociata contro i turchi (1683-1718)
              di Lucio Lami
              230 pag., euro 18,00 (al marzo 2008)
              Mursia Gruppo Editoriale, 2008
              ISBN: 9788842539469
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