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L'ubriacatura ideologica
(L’enivrement idéologique)

Intervento di Lucio Lami, vicepresidente del PEN Italiano, alla 35a Conferenza del PEN International, a Bled (Slovenia), 15-19 maggio 2002, dedicata al tema: "Que nous reste-t-il du XXe siècle"

(Versione italiana)

Del Ventesimo Secolo ci restano alcuni doni preziosi: basti pensare al prodigioso progresso scientifico e alle esaltanti performances dei mezzi di comunicazione. Ma ci restano anche le reliquie di due Guerre Mondiali, di centinaia di guerre locali, dell'Olocausto, dell'ubriacatura per i regimi totalitari. Montagne di macerie morali dall'alto delle quali, troppo spesso, hanno urlato a squarciagola scrittori e intellettuali, afflitti dalle loro malattie infantili: l' estremismo ideologico, la vanità e l'opportunismo. Come se negli uomini di pensiero esistesse - per dirla con Paul Johnson - "una sorta di funesto climaterio, di menopausa cerebrale, che potremmo chiamare fuga dalla ragione" [1]. Malattie antiche che facevano già dire a Erac1ito di Efeso, sei secoli prima di Cristo, che "il saper molto non insegna a pensare rettamente: Pitagora è il capo degli ingannatori".

Ottant'anni fa l'opinione pubblica "non aveva ancora dimenticato gli appelli firmati, sulle due sponde del Reno, dai più grandi nomi della letteratura e della filosofia: essi avevano ripetuto ai soldati che stavano combattendo per la cultura e per la civiltà” [2]. Fu allora che Julien Benda rese celebre l'espressione "tradimento dei chierici".

Nel 1931, in Italia, su 1250 professori universitari chiamati a giurare fedeltà al fascismo, solo 11 non giurarono. Nel 1935 un gran numero di scrittori francesi sottoscrisse un manifesto di solidarietà alle recenti dittature, facendone pubblicità sui giornali, mentre già la Francia veniva attaccata dai nazisti [3].

Nel 1938, molti letterati firmarono in Italia il "Manifesto della razza", emulando gli intellettuali tedeschi che quella teoria avevano innalzato a sedicente scienza.

Nei mesi dell'occupazione, a Parigi, c'era chi ridicolizzava personaggi come Jules Romains che se n'era andato a New York con gli archivi del Pen Club francese: "Pourquoi ces pseudo-guides de la pensée, ces humanistes, ont-ils abandonné comme des laches la terre de France?"

All'Italia andò meglio: mentre il Pen Internazionale, da Londra, minacciava l'espulsione di quello italiano, a causa dell'esaltazione della guerra fatta dal segretario Marinetti, spalleggiato dal Sindacato italiano degli scrittori, in linea col regime, venne indetto in Sud America il convegno mondiale del Pen. Gran parte degli scrittori europei si imbarcarono come ospiti su una lussuosa nave italiana e la scomunica fu rimandata sine die.

Eppure, solo qualche anno dopo, nel '50, al termine della Seconda Guerra Mondiale, la stessa classe colta, rappresentata da più di cinquecento delegati provenienti da quaranta nazioni diverse, si riuniva a Breslavia per il "Congresso degli intellettuali per la pace" e inneggiava compattamente alla dittatura di Stalin, senza notare che dei settecento scrittori russi presenti nel 1934 al primo Congresso dell'Unione, solo cinquanta erano sopravvissuti alle purghe: meno del dieci per cento. Il climaterio degli intellettuali entrava in un nuovo ciclo: cambiavano gli indirizzi politici, non la presunzione. I nuovi maitres à penser giustificavano il totalitarismo con ancor maggiore compattezza di quanto avessero fatto prima, negli Anni Trenta e Quaranta.

La lezione di due guerre mondiali non era bastata a moltissimi letterati per distinguere con chiarezza i confini tra l'impegno intellettuale e la condiscendenza per i regimi. "Svincolata dalla verità e dall'onestà, ma presentando tanti vantaggi, l'ideologia politica era più forte che mai” [4] e caratterizzava tutto il secolo.

Secondo un mio amico, il cibernetico Michail Agurskij, la stupefacente dote di molti intellettuali, durante gli ultimi ottant'anni, è consistita nel "far convivere realtà e surrealtà. Il surreale è ciò che l'ideologia contrabbanda come già realizzato o in via di realizzazione anche sotto le dittature (la libertà, la democrazia, la giustizia sociale). Il reale, invece, è ciò che effettivamente accade ma che non viene preso in considerazione, perché contraddice l'ideologia. Solo l'opportunismo e la menzogna provvedono a fondere realtà e surrealtà". [5]

È in quest'ottica che l'intellettuale, com'era stato sordo ai segnali evidenti che preannunciavano il fascismo e il nazismo, così reagì grottescamente di fronte al caso Kravcenko e scetticamente ai richiami del dissenso sovietico. In Italia, come in tutta Europa, ci fu chi temette la "Solzenicyn parade" e chi considerò la sua denuncia una rivelazione, fingendo di ignorare che negli anni che andavano tra la rivoluzione del '17 e il rapporto Kruscev in Francia e in Italia erano stati pubblicati non meno di cento libri sulla realtà del gulag. [6]

Perché tutto questo? Sembra che si debba prendere atto che dopo la crisi dell'inizio del secolo tutte le filosofie, tutte le Weltanschouungen da essa ispirate o ad essa connesse (la fenomenologia, l'esistenzialismo, la psicanalisi, il surrealismo, la sociologia, il positivismo logico, fino al più recente pragmatismo), abbiano in comune il disinteresse teoretico per la libertà. Un disinteresse alimentato da un'indifferenza morale che a volte si contrappone al concetto stesso di libertà.

Alle soglie del nuovo millennio, in tempi di radicale mutamento, quando un esame sui diritti dell'uomo, e magari anche dei suoi doveri, diventa sempre più impellente, sembra necessaria una presa di coscienza da parte dell'intellettuale. Il dovere delle scuse non è solo della Chiesa cattolica. Aggiungerei che in questo momento riacquistano peso e valore i principi in base ai quali la poetessa inglese Dawson-Scott fondò il Pen nel 1921 e John Galsworthy, autore di Justice ne assunse la prima presidenza. Se da un lato occorre riconfermare il diritto dello scrittore ad esprimersi senza rischiare il carcere o la morte, dall'altro il superamento dei confini (ideologici prima che territoriali) deve ricondurre la categoria a un giudizio non avvelenato dal pregiudizio e dall'ambizione di indicare al mondo nuove ortodossie.

Non so se sia vero, come dice Johnson, che una dozzina di persone scelte a caso per strada sia in grado di esprimere opinioni altrettanto sensate di un campione rappresentativo di intellettuali. Certo, la diffidenza della pubblica opinione ha qualche giustificazione. Forse aveva ragione Alain Robbe-Grillet quando, nel 1957, faceva un'onesta riflessione sugli uomini di cultura: "Comme pourrions-nous oublier les submissions et les démissions successives, les brouilles retentissants, les excomunications... Redonnons donc à la notion d'engagement le seul sens qu'elle peut avoir pour nous: au lieu d'etre de nature politique, l'engagement c'est pour l'écrivain la pleine conscience des problèmes actuels, la volonté de les résudre de l'interieur".

Dopo l'ubriacatura ideologica, che abbiamo vissuto nel secolo appena concluso, l'eredità può essere questa: una lezione d'umiltà e un invito alla razionalità. Come diceva un personaggio di Samuel Beckett nell'opera Fin de partie: "Signifier? Nous signifier? Ah, elle est bonne!".

 

Note:

1 Paul Johnson - Gli intellettuali. (Longanesi 1988)

2 Raymond Aron - L'oppio degli intellettuali (Ideazione 1998)

3 Herbert R. Lottman - The Left Bank (Wallace and Sheil ag. Inc. 1981)

4 Jean-François Revel - La connaissance inutile (Grasset&Fasqueli 1988)

5 Lucio Lami - Il grido delle formiche (Rusconi 1980)

6 Jelen/Wolton - L'Occident des dissidents (Stock 1979)

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