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Vent'anni col Pen Club
Dalla Rivista del Pen Club, giugno 2010
Il nome di Lucio Lami è legato alla rinascita
del Pen, che ha naturalmente una data precisa, 27 giugno 1988. Non
era certo uno sconosciuto il cinquantaduenne giornalista che convocava
a Milano alcuni scrittori, ancora legati al Pen, per salvare la
sezione italiana dell’associazione fondata a Londra nel 1921
dalla poetessa inglese Catharine Amy Dawson-Scott.
Forse, in quel caso, Lami improvvisava, ma quante volte non aveva
dovuto improvvisare, e pericolosamente, nel suo mestiere di corrispondente
di guerra? Lo aveva fatto in Afganistan, alla fine del 1981, da
clandestino, quando per giorni non aveva dato notizie di sé
a Indro Montanelli che gli aveva proibito di fare sfoggio di coraggio;
in quel frangente Lami aveva dovuto brevettare (e sperimentare immediatamente)
una quantità di tattiche mentali e fisiche impressionante:
dover marciare e ancora marciare cercando di capire tutto
di un panorama fatto di montagne scoscese e di uomini semplici,
ma inscrutabili, che l’avrebbero guidato lungo 700 estenuanti
kilometri.
Foto: Afghanistan. Lucio Lami e il comandante
Ruhani.
Mutatis mutandis, l’imperativo di non fare passi
falsi continuava anche nella Milano alla fine degli Ottanta, città
che alcuni umoristi avevano definito ‘da bere’, in un
ambiente letterario popolato da felpati individualisti stirneriani
sempre pronti ad abbracciare l’amico per impallinarlo meglio.
D’altra parte, dopo la morte di Mimì Piovene, la leonessa
che aveva ricoperto il ruolo di Segretario generale del Pen accanto
a Soldati presidente, bisognava decidere in fretta. Chiusa la sede
romana, occorreva impedire che il Pen italiano si estinguesse e
che anche il suo ricordo finisse per disperdersi nei moti entropici
del mondo. Ormai ritirato a Tellaro, Mario Soldati, che del Pen
aveva ricevuto il testimone nel 1980 dopo la morte di Alberto Moravia,
continuava, sì, ad ascoltare coloro che ancora tentavano
di reggere le ormai inconsistenti fila dell’associazione,
ma parlava poco e troppo flebilmente perché qualcuno potesse
udirlo. La decisione di convocare vecchi amici legati al Pen, di
investirli della responsabilità di una rifondazione, era
dunque una sfida. Senza quell’atto iniziale, i cui effetti
durano da allora, non saremmo qui a parlare di Lami. Anzi, non saremmo
affatto qui.
Lucio Lami diventerà presidente del Pen nel 2002, dopo il
triennio di Ferdinando Camon e i dieci anni di Mario Luzi. Intanto,
da 12 anni aveva dato vita al premio letterario del Pen, a Compiano.
Era stata un’impresa difficile, e non solo per i soldi da
trovare ogni anno, ma per la formula che sganciava il premio dai
poteri delle grandi case editrici per conferirlo agli scrittori.
Ma Lami era stato vicepresidente del Pen lungo diciotto anni; come
si dice, conosceva l’ambiente. E l’impresa di Compiano
riesce; dalle selezioni lì avvenute passano i migliori. Però
resta il fatto della fiacchezza endemica delle organizzazioni di
cultura in Italia, resta il fatto che tale fiacchezza sia dovuta,
oltre che a cause endogene, alla disattenzione sistematica e talora
al fastidio becero dei governanti. Lucio Lami ne ha perfetta coscienza
e cerca di reagire.
Grazie alla spinta di validi collaboratori, battezza la formazione
di un gruppo all’interno del Pen che si intitola Writers
in prison; non si vuole che passino sotto silenzio angherie,
persecuzioni e torture decretate da governi che obbediscono unicamente
al selvaggio desiderio di durare. Writers in prison è
un’esperienza che si richiama a esempi dell’International
Pen e produce due appuntamenti internazionali di grande rilievo
a Venezia e Milano. Da quell’esperienza maturerà la
scelta, oggi praticata dal Pen italiano, di proteggere
economicamente e legalmente scrittori dissidenti in Cina, a Cuba,
in Messico, ovunque sia il caso. Lucio Lami resterà presidente
del Pen fino al 2007 quando passerà la fiaccola al poeta
Sebastiano Grasso (del Pen italiano Lami è adesso presidente
onorario).
Ma chi è, o meglio, che cos’è quest’uomo
che ama diffondersi sul perché non può non dirsi
toscano?
Lucio Lami tiene all’albero famigliare e più in generale
alle genealogie. La sua conversazione è punteggiata da storie
che riguardano i Lami che scorticano il suolo toscano dal XII al
XIX secolo (tutto provato da carte e date; capitani, cavalieri,
teologi, eruditi e anche quel Nicolò Lami, ultimo guardasigilli
del Gran Ducato di Toscana, fedele a Leopoldo); poi il discorso
di Lucio intercetta altri Lami dispersi oggi un po’ ovunque.
Comunque sia, Lucio Lami non nasce in Toscana, ma in Lombardia nel
1936. Esordisce nel giornalismo nel 1960; lavora coi grandi editori
dell’epoca, Rizzoli, Mondadori, Rusconi, Mazzocchi. La svolta
cruciale avviene però nel 1974 quando entra nella redazione
del Giornale nuovo di Indro Montanelli. Come inviato speciale
inanella viaggi su viaggi ovunque vi siano teatri di guerra, Cambogia,
Laos, l’Afganistan (prima raccontato negli articoli sul Giornale
nuovo e poi in uno splendido libro hemingwaiano intitolato
Morire per Kabul dell’82),
prima e seconda guerra del Golfo, Libano, Ciad, Polisario, Somalia,
Angola, Mozambico, Nicaragua, Panama, Salvador, Perù…
Dalle sue corrispondenze (e dai libri che talora egli ne ha tratto)
emerge una figura di giornalista che riduce al minimo ogni forma
di intermediazione. Se studia lungamente il campo sui libri, non
scrive se non di ciò che ha visto, toccato, parlato. Per
dirla con Montaigne, Lami appartiene alla razza dei topografi e
non dei cosmografi; in questo assomiglia al suo amico Ettore Mo,
l’altro grande viaggiatore del giornalismo italiano che, se
non avesse sbagliato mestiere, avrebbe potuto fare l’antropologo.
La scrittura di Lami è a grana fine, frasi brevi, mai il
doppio aggettivo, molti verbi d’azione, struttura paratattica
mai compiaciuta. Non saprei dire se Lami sia un pessimista storico;
tuttavia in lui è percepibile la convinzione che, se non
è facile interpretare la vita, è ancora più
difficile dirigerla. Forse per questo egli tende al dettaglio esemplare.
In un certo senso la scrittura redime: i documenti che uno è
in grado di produrre vedendo, toccando, parlando devono
essere utili.
Giovanni Arpino ha parlato di Morire per Kabul come di
un libro esemplare, da scuola di giornalismo. Arpino aveva ragione
e avevano ragione coloro che, nel tempo, hanno gratificato Lami
col Premio Max David, col Premio Hemingway, con l’Estense.
Lucio Lami ha scritto moltissimo; è stato viaggiatore, romanziere
e anche poeta (‘laureato’, avrebbe detto Eugenio Montale,
col premio Montale, fuori casa). Ma si può chiudere un pezzo
su di lui sorvolando sul fatto che Lucio Lami sia, incontestabilmente,
uno dei più grandi esperti mondiali di storia equestre?
Carlo Montaleone
Ordinario di Antropologia filosofica
all’Università Statale di Milano