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Riprendiamoci la democrazia
Cinque esortazioni per gli italiani
afflitti dal nuovo regime
3 - Riprendiamoci la storia
Un popolo che non riconosce la propria storia non
è più un popolo. Una nazione che vive ignorando la
propria storia non è più una nazione e non può
nemmeno essere l'elemento costitutivo di una nazione più
grande o di una unione di nazioni, come l'Europa.
È il caso dell'Italia la cui scuola genera
da cinquant'anni apolidi, ignari del loro più recente passato
e i cui media partecipano coralmente al mantenimento di un'ignoranza
collettiva, funzionale al regime, dalla quale derivano fenomeni
macroscopici come quello che vede un intero popolo continuare a
votare per un apparato partitocratico e sindacale malavitoso dal
quale non può aspettarsi che due cose: o essere frodato e
angariato o essere cooptato mafiosamente, cioè comprato,
se l'indebitamento pubblico ancora lo consente.
È nella storia che un popolo affonda i pilastri sui quali
costruire il futuro. Sulle paludi non si costruisce nulla. I valori
che regolano una società sono prodotti della storia ed elementi
costitutivi del futuro. Ma la storia d'Italia è stata sepolta
sotto le macerie della seconda Guerra mondiale e sostituita con
una finta storia ad uso delle fazioni sopravvissute al disastro,
che se la sono inventata, come i parvenues che si fregiano di blasoni
familiari inesistenti.
Una storia senza radici che è stato possibile
imporre, per ragioni politiche, solo operando una tragica lobotomia
sulla memoria collettiva, imponendo una rimozione al tempo stesso
patetica e drammatica, attraverso la violenza, la propaganda, la
scuola di regime e i media omologati e col consenso di un'intera
generazione bisognosa di oblio e di una nuova verginità.
Così è nata la storia funzionale agli eredi della
catastrofe, basata sui falsi. La nuova vulgata, come la chiamò
De Felice, raccontò che il fascismo si era imposto solo con
la violenza e non per reazione alla violenza e all'ingovernabilità,
che il fascismo non aveva mai avuto il consenso popolare come dimostrava
il fatto che dopo il 25 luglio 1943 tutti si dichiararono antifascisti,
che l'Italia era stata liberata dai partigiani e non dalle truppe
inglesi e americane, che la Resistenza aveva compattamente combattuto
per la democrazia, comprese quelle formazioni (egemoniche) che prendevano
ordini da Mosca, sognavano la rivoluzione dei soviet, la dittatura
del proletariato e che volevano regalare a Tito mezza Pianura padana.
Una storia così fantastica che fino al 1968
nessuno osò farla studiare nelle scuole perché erano
troppi i viventi che l'avevano conosciuta altrimenti sulla loro
pelle e che poi fu imposta attraverso la cultura terroristica la
tempo della contestazione. Una storia così antistorica che
nel dopoguerra fu uno degli elementi di difesa di chi ancora giustificava
il fascismo.
La guerra civile, nata dalla catastrofe politica, militare e morale
deell'8 settembre 1943, il dramma dell'Italia divisa in due, la
nascita del regno del Sud, della Repubblica Sociale mussoliniana,
delle formazioni partigiane, quelle "lealiste", quelle
democristiane, quelle azioniste, quelle comuniste, e, all'interno
di queste ultime, le ortodosse e le eterodosse (si legga il libro
"Le ragioni del sangue" di Alessandro Gennari), per non
parlare delle bande di sciacalli ad esse mescolate e dei killers
politici ancora operanti nel 1947, tutto viene aggiustato, sublimato
in un'iperbole che diventa agiografica ad uso delle fazioni emergenti
nel dopoguerra. La manomissione è così pacchiana che
molti personaggi di spicco della vera lotta partigiana, come il
comandante del massimo organo direttivo della Resistenza, Alfredo
Pizzoni, neppure compaiono nelle storie celebrative, perché
politicamente scomodi.
Questa esaltazione maniacale ad uso dei rèvenants
(i "rieccoli", diremmo oggi) ha finora impedito la riflessione
sui punti salienti e gravidi di conseguenze della crisi dopo l'otto
settembre. Per esempio sul fatto che solo una modesta minoranza
prese parte attiva ai rivolgimenti, sull'uno e sull'altro fronte
della guerra civile, mentre la stragrande maggioranza degli italiani
li subì. In particolare la borghesia italiana, la stessa
che dopo Caporetto aveva stretto i denti per scongiurare la catastrofe
e che, invece, dopo l'armistizio – farsa di Badoglio rivelò,
come ha scritto Rosario Romeo, "la debolezza etico –
politica del sentimento nazionale evitando di schierarsi in attesa
dello svolgersi degli eventi".
In contrapposizione a questa grande astensione ("l'attendismo")
le sinistre iniziarono quel processo di usucapione della Resistenza
sul quale basano ancora oggi il loro credito di redentrici.
Restano così ignorate le vere cause e i veri
effetti della catastrofe morale dei quali ancora oggi paghiamo il
conto, in un prolungamento di dopoguerra. L'obbligo di demonizzare
qualsiasi aspetto legato alla storia antecedente al 1943 ha fatto
sì che il senso della nazione, lo spirito di solidarietà
patriottica, la fratellanza ideale ispirata dal Risorgimento, il
rispetto dei caduti, la dignità della nazione, il senso di
appartenenza sotto un'unica bandiera, l'autonomia politica rispetto
agli altri Stati, tutti pilastri vitali per la ricostruzione di
un Paese civile, finissero nella pattumiera, "in quanto già
appartenuti al fascismo" che li aveva sequestrati e incorporati
nel regime.
A guerra perduta, sulle macerie dello Stato italiano,
che aveva meno di un secolo di vita unitaria, restavano, quasi simboli
di occupazione, due sole bandiere ideologiche: quella del Vaticano
che aveva esaltato la Dc iniettandole il suo spirito universalista
e quella rossa del marxismo, ancora internazionalista. Per l'Italia
rinata, già si prospettava il rischio dell'eutanasia ad opera
dei suoi autoproclamati "salvatori".
Nasceva da questa separazione tra la storia ideale e la storia dei
vincitori quel distacco tra Paese reale e Paese dei partiti che
già nel 1948 Giannini sintetizzava in una vignetta con Mussolini
declamante ("Prima di noi non c'era che l'Italietta), Parri
replicante ("Prima di noi non c'era democrazia") e l'Uomo
qualunque sotto il torchio ("Prima di voi nessuno mi rompeva…").
La contrapposizione è nata col falso storico
e la rimozione. Il non aver visto che tra il 1940 e il 1945 stava
morendo la patria ci ha condotti a un dopoguerra che non accenna
a terminare. E, per dirla con De Felice, "la vulgata storica
ha fatto il resto. Ha oscurato il problema, spinta da due ragioni
opposte: da una parte la necessità di legittimare con la
vittoria antifascista il nuovo Stato, dall'altra depurare dai veleni
del nazionalismo la politica del dopoguerra e la ricostruzione democratica.
Per rispondere a queste necessità "ideali" non
c'era che un modo: fascistizzare la guerra e nascondere la natura
fratricida dello scontro fra Rsi e Resistenza. Si è messo
in moto, allo scopo, un meccanismo di rimozione politica con il
quale ancora oggi dobbiamo fare i conti", mentre per accorgerci
di essere italiani bisogna ormai attendere che Schumacher porti
la Ferrari al traguardo, in un inconsueto tripudio di tricolori.
E non parliamo della storia dei nostri giorni. Chiedete
a un neo – laureato chi erano Secchia o Tambroni o Epicarno
Corbino e godetevi il suo stralunamento. È così che
la politica, pur riempiendo le conversazioni degli italiani, resta
un esercizio di tifo campanilistico e il voto un tributo di riconoscenza
da pagare: ieri per il pacco di spaghetti offerto da Lauro, oggi
per il posto di lavoro ottenuto tramite il partito o il sindacato.
La mancanza di storia sterilizza l'elaborazione del
pensiero e l'autocoscienza politica. L'aver continuato a inoculare
il rifiuto della realtà in nome della fede politica (credo
quia absurdum) ha dato origine a fenomeni grotteschi: una stessa
legge è stata accolta come "legge truffa" o legge
provvidenziale, a distanza di pochi anni, a seconda di chi l'aveva
presentata. Il fenomeno di tangentopoli è apparso come un'improvvisa
mostruosità agli occhi di quegli italiani che non avevano
storicizzato l'accaparramento dei tesori dello Stato, nel dopoguerra,
da parte dei partiti egemoni; il finanziamento degli stessi da parte
degli Alleati (vedi la Dc) e persino dei nemici degli Alleati (vedi
il Pci); la nascita ufficiale del sistema della corruzione politica
al tempo del varo delle grandi aziende statali e dell'istituzione
del ministero delle Partecipazioni, nel 1957. Lo Stato veniva trasformato
ancora una volta in imprenditore non per mirare alla potenza bellica,
come voleva il sogno megalomane di Mussolini, ma per "ridistribuire"
per conto dei partiti, generando il voto di scambio.
L'aver respinto il confronto con la storia, al vera
storia, ha fatto sì che l'Italia si fregiasse dell'unica
classe intellettuale che abbia rifiutato di confrontarsi con la
realtà concentrazionaria del comunismo, col risultato che
la nostra intellighenzia ha continuato per cinquant'anni a banchettare
alla corte del nuovo principe come aveva fatto col vecchio: fuori
dalla storia e contro la storia, senza dar luogo a quella resa dei
conti alla quale si andavano sottoponendo gli intellettuali stranieri
(si veda il trionfo di Aron in Francia), e assumendosi invece una
responsabilità primaria nel processo pavloviano di condizionamento
culturale del Paese. La Patria risorgimentale veniva così
presentata come oggetto da rifiutare, "essendo laica agli occhi
degli intellettuali democristiani e borghese agli occhi di quelli
marxisti" (Sergio Romano).
L'atarassia del popolo italiano di fronte all'attuale
regime, espressa ora con la rassegnazione e l'attendismo (eredi
diretti dell'otto settembre), ora con le manifestazioni di rivolta
populista, deriva essenzialmente dall'incultura coltivata, cioè
dall'incapacità di confrontarsi con le lezioni della storia.
Eppure la salvezza del Paese non può venirci dalle regole
invocate e finalmente imposte dall'Europa né dagli ukase
dell'economia globale, come molti sperano, ma da una rigenerazione
culturale che parta da una nuova scuola e da un nuovo sistema di
informazione e che arrivi a un cambio radicale del sistema. Solo
riconquistando la nostra storia, accettandone la lezione per malinconica
che ci appaia, sarà possibile offrire alle nuove generazioni
altri valori che non siano l'idolatria del denaro, il culto della
furbizia e l'amoralità politica e civile.
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