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Riprendiamoci la democrazia

Cinque esortazioni per gli italiani afflitti dal nuovo regime

 

2 - Riprendiamoci la libertà

Una partitocrazia mafiosa non potrebbe comperare il consenso se una larga parte della popolazione non fosse disposta a venderglielo, in cambio di qualche privilegio, a danno degli altri cittadini. Molti studiosi fanno risalire questa disponibilità a varie cause: mancanza di senso civico, caduta dei valori, debolezza delle società aperte.

Già Alexis de Tocqueville aveva notato che gli ordinamenti sociali non dipendono tanto dalle leggi quanto dai "contenuti di fede, di convinzioni, di abitudini del cuore e dello spirito degli uomini". Recentemente Joachim Fest ha ampliato il concetto: "Tra gli errori oggi ricorrenti c'è quello di credere che la libertà scaturisca dalle istituzioni democratiche". Non è così. Una società senza convinzioni profonde, senza principî radicati nella coscienza di tutti, perde la voglia di libertà e si limita a perseguire desideri contingenti. Si volge a quello che, con abusato termine, chiamiamo edonismo moderno, un'inclinazione che in politica provoca effetti gravi: un voto è cedibile per una pratica portata a compimento, per una deroga al piano regolatore, per un posto di bidello.

"Che cosa vogliono i giovani?" Si chiede lo speaker di un noto spot televisivo. "I soldi, le donne, l'automobile". Ma quali impegni sono capaci di assumere società che non hanno altro da offrire se non questi valori?

In sintesi, non ci sarà libertà se non ci saranno valori in grado di sorreggerla. L'Italietta risorgimentale aveva Dio, la Patria e la Famiglia, ma oggi molti sostengono, con Allan Bloom, che "Dio è morto e abbiamo bisogno di nuove divinità". La patria, come leggo su un testo scolastico italiano, "è veicolabile solo nell'accezione fascista" e la famiglia, a detta dei sociologi, è istituzionalmente in crisi. Con cosa è stato sostituito questo trittico? Con una specie di amore universale puramente epidermico che sostanzialmente non si eleva neppure al rango di valore. Prova ne sia che i giovani sembrano afflitti da quella malinconia post – storica che li spinge disordinatamente a caccia di sovrannaturale. Dai Figli dei fiori alla New Age, dai cultori dell'esoterismo ai pellegrini in Oriente, passando per gli asociali e per i rivoluzionari attratti dalla violenza distruttiva e arrivando agli utopisti della restaurazione tribale ed iper – ecologica, tutto appare privo di fondamenta. I valori dovrebbero servire anche a questo: a far capire che l'abuso di libertà in nome della libertà è contro la libertà.

Se è evidente che l'Italia necessita di una rivoluzione che attraverso il cambio delle regole e l'estirpazione della partitocrazia riconsegni la libertà ai cittadini, è altrettanto evidente che la riconquista della libertà passa attraverso il ripristino dei valori essenziali che non siano gli attuali: il solidarismo acritico e sentimentale, l'ecotopia, un europeismo di pura maniera.

Il solidarismo in voga è un prodotto di sintesi tra la carità cristiana e l'egualitarismo marxista. Un prodotto socio – politico più che morale, figlio di quella ricerca della felicità grazie alla quale Calvino vedeva il mondo come una teocrazia. Il solidarismo di massa non richiede valori ma simbologie ed è figlio dell'ecumenismo politico e delle mode. È l'espressione frutto della nuova ortodossia, così come l'integralismo è una degenerazione dell'interpretazione coranica. Non a caso il Papa cerca di iniettarvi forti dosi di trascendente, visto che senza lo sforzo "per la glorificazione di Dio nel mondo" il solidarismo si riduce, come spesso notiamo, a una ricerca della felicità collettiva che è la versione speculare dell'edonismo, la riedizione infiocchettata dell'egualitarismo marxista.

Il ritorno alla natura, che ha la sua versione più razionale nell'ecologismo, non è un valore: semmai una virtù civica, una proposta di salvaguardia del mondo in cui viviamo. Esso si trasforma spesso nello sforzo utopistico di ritornare alla vita primigenia, alimentando quella malinconia post – storica di cui abbiamo parlato.

L'europeismo, valore collettivo recente, ha, nella pubblica opinione, scarse radici razionali. Fu indicato fin dal dopoguerra come elemento di superamento della sconfitta. Einaudi, Sforza, De Gasperi, Spinelli lo concepirono come antidoto alla disfatta e fattore chiave nella scelta dello schieramento occidentale. Il tardivo europeismo della sinistra derivò dall'internazionalismo. Come indirizzo di politica estera l'europeismo italiano fu sempre double face. In quanto "nuovo valore" esso è spesso declassato dall'idea che l'Europa servirà ad obbligarci a sanare l'economia e a darci un'organizzazione politica meno mafiosa. Gli ideali, come si vede, c'entrano poco.

Eppure, solidarismo, ecologismo, europeismo, se privati dei loro orpelli politici, possono essere nuovi valori, soprattutto se ad essi se ne affiancassero altri meno nuovi, quelli che nell'Italia pre – fascista costituivano la morale laica.

Non si pretende, naturalmente, che i bancarottieri riprendano la vecchia abitudine di spararsi alla tempia rifiutando il disonore, ma almeno che il culto dell'onestà venga ripristinato attraverso l'educazione, assieme al senso della giustizia, all'amore per il proprio Paese, al culto del dovere (valore scomparso a favore dell'idolatria per i diritti), al rispetto per glia altri, al senso dell'onore, al gusto per la convivenza civile, alla stima per la coerenza (altra dote declassata dai voltagabbana), al rispetto per la libertà di giudizio e di espressione.

Nella filosofia cattolica, liberale e socialista tutti i valori vengono posti nell'individuo. Ma se cominciassimo a riconoscere valori anche nei popoli e nelle culture – come auspica Alain De Benoist – allora riacquisteremmo un concetto di libertà un po' meno anarchico e primordiale. Se riconoscessimo ad esempio un valore alla nostra cultura, allora i problemi come il separatismo e l'eccesso di immigrazione verrebbero affrontati con maggiore serietà.

In epoca pre-fascista la scuola e la Chiesa si contendevano la semina dei valori. Oggi la situazione è cambiata. Come dice Fest, "la capacità di rapportare il comportamento delle persone alle conseguenze che da esso derivano diminuisce anche all'interno di queste istituzioni. La smania di sperimentazione nella scuola, ad esempio, è in aperto contrasto con l'idea della continuità, che è poi il principio fondamentale di ogni forma di educazione. Analogamente la politicizzazione delle chiese ne svuota la missione spirituale… Nel loro impegno unidirezionale i pastori non fanno che smantellare continuamente i punti di riferimento tradizionali e pregiudicano proprio quelle potenzialità che la loro retorica di liberazione pretende di prospettare."

Persino nella riconquista dei valori, senza i quali non c'è libertà, c'è quindi bisogno di una rivoluzione, cioè di una presa di coscienza collettiva, senza la quale il nostro orizzonte non ci offrirebbe che il degrado istituzionalizzato. Da anni questa tesi è esposta da più parti con crescente insistenza. Ha scritto Pietro Scoppola: "Non c'è vita democratica se non c'è un tessuto morale che la sostiene", ma già nel dopoguerra Marcello Soleri aveva detto: "La ricostruzione delle coscienze è necessaria quanto quella delle case dopo un terremoto o un bombardamento".

Ma il recupero dei valori comporta il riconoscimento di "vecchi" valori inalienabili. E l'idea di ricuperare qualcosa dal passato cozza contro il postulato della sinistra secondo il quale non c'è nulla da ricuperare dal "prima", né dall'Italia post risorgimentale né tantomeno da quella del Ventennio. Sicché, quando leggiamo le polverose lettere del ministro Giovanni Lanza ("Cara moglie, vendi una vacca perché la regina mi invita in carrozza ed ho bisogno di un cappotto nuovo…") o quelle indirizzate da Quintino Sella, neo ministro delle Finanze, agli amici imprenditori e banchieri ("Ora che sono ministro è bene che non abbiate più nessun rapporto d'affari con lo stato…) anziché esclamare: "Ecco i nostri valori perduti", sorridiamo benevolmente come di fronte ad anacronismi ormai incomprensibili e improponibili.

La riprova di questa obnubilazione dei valori sta nel fatto che nel sentire corrente chi non intrallazza non è furbo, chi va in galera come profittatore lo fa "a testa alta", rilasciando interviste, promettendo la riscossa. Capitani di industria condannati diecine di volte per aver frodato lo Stato rilasciano pareri altezzosi su come andrebbe condotta la cosa pubblica, in ciò adeguandosi a quel comune sentire che consente agli impiegati dello Stato di dotare i loro figli della cancelleria sottratta ai ministeri per un valore di alcune decine di miliardi. In nome della soppressione del passato, si sono cancellati i valori che dovrebbero essere insegnati ancor oggi ed è cessata quella sana "discriminazione" sociale che un tempo separava gli onesti dai corrotti. L'ondata di pietismo che si riversa su ogni condannato, per malversazione o per omicidio, per stupro o per furto, è un segnale eloquente: il capovolgimento dei valori privilegia il reo rispetto alla sua vittima in nome di una nuova mentalità che non osa autodefinirsi.

La volontà di cambiare l'uomo senza rispettare i limiti della morale comune, che caratterizzò la rivoluzione marxista, abbinata allo smantellamento di ogni tradizione da parte del cattolicesimo ci hanno portato in questa terra di nessuno, nella quale i confessori come i politici assolvono chi ruba per il partito e i padri insegnano ai figli l'arte di arrangiarsi.
La fusione tra la vecchia furbizia popolare e il machiavellismo politico ha prodotto la distruzione di quei valori senza i quali la democrazia muore. Ed è da essi che bisogna ricominciare senza illudersi che il loro ripristino possa essere il frutto dell'azione dei tribunali e di qualche condanna "esemplare".

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