» Riprendiamoci
la democrazia » 5 - Riprendiamoci la dignità
«
Riprendiamoci la democrazia
Cinque esortazioni per gli italiani
afflitti dal nuovo regime
5 - Riprendiamoci la dignità
Non molto tempo fa bastava che un principe straniero
ci accusasse di fellonia perché un principe italiano lo sfidasse
a duello, per salvaguardare la nostra dignità. Oggi ci accusano
di essere ladri e mafiosi ma non c'è deputato che sguaini
la spada: i duelli sono passati di moda, il giudizio di Dio è
un rischio da non correre e di paladini senza macchia se ne vedono
pochi.
Secondo Sallustio, il senato romano già ai tempi della guerra
giugurtina era in gran parte corruttibile. Se ne deduce che l'onestà,
nel mondo politico, è sempre stata merce rara. Ma c'è
corruttibilità e corruttibilità. Quando si tratta
di denaro pubblico, le dimensioni del furto non possono superare
certi limiti "fisiologici", pena la rovina dello Stato.
In democrazia, poi, se si toglie ai cittadini il diritto di controllare
le finanze pubbliche che cosa rimane?
Quando un popolo si rassegna ad essere governato
da ladri, perde non solo la dignità ma il diritto a rivendicarla.
L'Italia ha perso la dignità l'8 settembre 1943. Da allora
ha fatto molto per riacquistarla, ma ad impedirle un risultato apprezzabile
è stata la corruzione. La guerra non ci aveva portato solo
la sconfitta militare, ma anche il borsanerismo, gli accaparramenti,
la cosiddetta arte di arrangiarsi, trasformatasi in seguito nell'arte
di arrampicarsi, di far carriera, di speculare sulle miserie altrui.
La guerra si era portata via gli uomini migliori, sull'uno e sull'altro
fronte. La nuovissima classe, quella dei sopravvissuti, era in gran
parte moralmente fragile e ne avrebbe presto dato la prova.
Negli anni successivi al conflitto i grandi casi di
corruzione di Stato si verificavano soprattutto nei Paesi socialisti
e nel Terzo Mondo. Poi la lotta tra i partiti e il bisogno di denaro
che essa comportava portò l'Italia alla ribalta.
Nessuno fece tesoro di quanto era accaduto nei Paesi
dell'Est, neppure le Chiese perché, come ha scritto J. F.
Revel, "innumerevoli preti e pastori proferirono anatemi contro
la corruzione del capitalismo, risparmiando stranamente gli Stati
criminali, affamatori e schiavisti del pianeta perché tali
Stati, avendo soppresso l'economia di mercato, non potevano più
peccare". Forse per questo, in Italia, ha fatto tanto rumore
il libro di Pino Nicotri, uscito ai tempi di Tangentopoli, con le
voci dei preti, registrate nei confessionali, che assolvevano senta
esitazione i furti del partito cattolico. Del resto, ancora nel
1993, il capogruppo della Dc, Gerardo Bianco, sosteneva pubblicamente
che "rubare per il partito, sulla spinta ideologica, può
essere un'operazione nobile". Il che gli consentiva di imparentare
la filosofia cattolica con quella comunista e al tempo stesso di
fare pubblica abiura alla dignità.
Le nostre organizzazioni politiche sono diventate,
negli ultimi cinquant'anni, antitetiche alla dignità degli
italiani. I partiti, fin dal dopoguerra, si trasformarono in qualcosa
di non previsto dalla Costituzione: società d'affari, macchine
economiche per l'occupazione dei gangli vitali del Paese. Nella
lotta concorrenziale che li contrapponeva, spendevano cifre astronomiche
che non potevano essere coperte dalle dignitose questue tra affiliati,
ipotizzate all'inizio. Già alla fine degli Anni Cinquanta,
Tangentopoli aveva preso a crescere indisturbata, come dimostrano
i libri di Mario Tedeschi "Dizionario del malcostume"
e "Roma democristiana". Ma il J'accuse, provenendo da
destra, lasciò il tempo che aveva trovato.
Dal canto suo il Pci, che contendeva alla Dc il primato dei finanziamenti
illeciti, pur ammantandosi della fama di "partito degli onesti",
incassava sovvenzioni dai sovietici, che allora – al tempo
della guerra fredda – erano i nostri avversari, senza porsi
problemi né di fedeltà alla patria né di dignità.
La simbiosi dell'apparato politico con la mafia avvenne
gradualmente, a mano a mano che diventava sistematico il controllo
delle elezioni attraverso il voto di scambio. Per il voto si offriva
di tutto: posti di lavoro nella burocrazia, false invalidità,
pensioni, permessi di edificazione, contatti e appalti per costruzioni
faraoniche spesso neppure realizzate.
Avendo posto i loro uomini nella grande e nella piccola burocrazia
i partiti imposero il pizzo, come la mafia, a volte in società
con la mafia, i cui capi erano spesso i controllori più sicuri
su interi pacchetti di voto.
Fu allora che la partitocrazia prese il posto della
democrazia e la dignità dei cittadini divenne un bene irrecuperabile.
Gli uffici statistici cominciarono a pubblicare dati economici dai
quali si rilevava che il Meridione senza gli introiti della droga
sarebbe finito in miseria, che le Ferrovie, l'Iri, l'Eni e le altre
imprese di Stato se amministrate onestamente avrebbero ridotto i
partiti a più modeste dimensioni. Fu allora che la spartizione
dei ministeri, dei segretariati, delle ambasciate, dei tribunali,
dei provveditorati, delle case editrici, degli enti pubblici, delle
partecipazioni private, delle banche si propagò come un'infezione,
fino ad essere subissata dalla lottizzazione totale, dal generale
di Corpo d'armata al netturbino. Gli interessi dei partiti, a quel
punto, erano già talmente superiori a quelli del Paese che
non c'era ombra di dignità che potesse essere salvaguardata.
Anzi, persino nei consessi europei questo nostro stile proiettò
i suoi "fulgori", mentre la cooperazione con i Paesi in
via di sviluppo, trasformata in Tangentopoli internazionale, ci
assicurava una fama da mafiosi in ogni angolo del globo.
All'estero i partiti italiani, accolti come sostituti
del Parlamento e presto considerati società a delinquere,
furono disprezzati persino da quei capipopolo terzomondisti che
consideravamo come controparte malleabile per il malaffare. Non
c'è scandalo fragoroso nei Paesi amici dell'Italia nel quale
la regia non sia stata dei nostri partiti: dai telefoni in Argentina
agli elicotteri in Belgio, dagli armamenti ad Atlanta all'edilizia
in Somalia, dall'agricoltura in Mozambico al gas in Algeria, e via
elencando. Nei traffici internazionali la bustarella è d'uso,
ma i partiti italiani non si sono mai accontentati: hanno imposto
il pizzo permanente, la taglia, il ristorno. Regalavamo arance,
ma pretendevamo che venissero acquistati i camion per trasportarle.
Oppure regalavamo impianti, pagati dalle tasse degli italiani, purché
ci fosse un ristorno ai partiti. E le industrie italiane che vendevano
manufatti e tecnologia pagati con i nostri denari venivano selezionate
in base alla loro disponibilità a entrare in combutta col
malaffare dei partiti. Dagli Appennini alle Ande, là dove
un tempo brillavano gli istituti della Dante Alighieri, simbolo
della cultura italiana, oggi nereggiano i ruderi della nostra "cooperazione"
col trucco, monumenti perenni alla nostra dignità perduta.
Sanno gli italiani che ogniqualvolta votano per certi
uomini e per certi partiti (quasi tutti, ahimè) abiurano
alla propria dignità di cittadini e controfirmano, al buio,
attività gangsteristiche di questa portata? Probabilmente
non se ne rendono conto fino in fondo. A mantenerli in una specie
di nirvana ideologico provvedono i mezzi di informazione, tutti
aggregati al sistema. La classe intellettuale è stata la
meno sensibile al fenomeno della corruzione del sistema e la più
duttile nel reclamizzarlo.
Questa, per dirla con J. F. Revel, è "l'inautenticità
intellettuale di una democrazia che basa il consenso sulla pubblicità
e che mantiene un rapporto di reciprocità con la corruzione".
L'elettorato è diventato il popolo televisivo e si è
lasciato convincere che la democrazia non sarebbe praticabile se
non autorizzando tacitamente il furto. E gli effetti della narcotizzazione
televisiva sono così potenti che abbiamo assistito alla conversione
totale della sinistra a quei metodi pubblicitari che aveva osteggiato
per anni e che aveva rinfacciato a Berlusconi. La tele – politica,
l'uso pubblicitario dei media sono i maggiori responsabili della
narcotizzazione. Oggi è difficile che l'opinione pubblica
si renda conto che la grande fonte della corruzione non è
la proprietà privata ma quella pubblica e che i partiti,
economicamente così organizzati, non sono, come dicono i
governanti, la garanzia dello Stato democratico, ma la sua ameba.
Ancora nel 1992 – ricorda Piero Melograni – il partito
laburista e il partito conservatore inglese si avvalevano, e neppure
sempre, di un unico funzionario stipendiato per ciascun collegio
elettorale. Finché non ridurremo i partiti italiani a questi
standard, negando loro il denaro pubblico e controllando i loro
bilanci essi continueranno ad essere macchine malavitose di un regime.
Sempre più raramente i cittadini levano la
loro protesta contro la mancanza di dignità di chi li rappresenta.
Le scenografie faraoniche dei congressi di partito, l'ostentazione
di lusso da parte dei politici e dei sindacalisti, l'esibizione
di un arricchimento fulmineo ed esteso ai parenti, le barche, le
ville, l'uso di trasporti militari per ragioni private, i privilegi
economici ed assicurativi, le case ad affitto irrisorio, la vita
notturna da macrò, l'atteggiamento prevaricatore da signorotti
medioevali imprimono a tutta la classe politica quei tratti da ciarlatano,
da parvenu, da grassatore che offendono la dignità dei cittadini,
soprattutto dei più tartassati e dei meno abbienti.
Riconquistare la dignità significa, da parte
dei cittadini, sbarazzarsi di questo tipo di uomini e di organizzazioni.
Darsi altre istituzioni, altri partiti, meno forti finanziariamente
e meno deboli moralmente. Finirla con una classe di politici scelti
dall'alto come proconsoli e dalle mafie economiche come esattori.
Non c'è democrazia là dove non c'è più
dignità, cioè senso del dovere e dell'onore, rispetto
per le persone, per il popolo, per la nazione.
«« 4
- Riprendiamoci la patria ««
Fine
Torna
all'inizio
Tratto da libro "Perchè mezza Italia
non vota più".