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Perché la comunicazione ha sostituito l'informazione
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Perché la comunicazione
ha sostituito l'informazione
Conferenza per il CIDAS, Torino, Centro Congressi
Unione Industriali, 26 Novembre 2010
Grazie ai miracoli dell’informatica, il pubblico
è oggi sommerso in poche ore da una quantità di notizie
pari a quella che, fino a qualche lustro fa, riceveva in un anno.
Fra un decennio, qualsiasi persona avrà accesso in un giorno
alla stessa quantità d’informazioni che un ricercatore
di un secolo fa riusciva ad ottenere in tutto l'arco della sua vita.
Un diluvio di notizie, convogliate nel corso delle ventiquattro
ore, riguardanti ogni campo dello scibile e diffuse in contemporanea
con gli avvenimenti.
Eppure, per un fenomeno che bisognerà studiare
a lungo, più aumentano le notizie più diminuisce l'informazione.
È ormai evidente che quest’effluvio non solo sostituisce
il mondo reale con quello virtuale, ma danneggia la capacità
d’elaborazione dell’individuo, quella che faceva dire
ai saggi di un tempo "so solo di non sapere nulla", la
stessa che ha portato Karl Popper alla negazione della certezza.
Informare dovrebbe voler dire non solo rendere noto
qualcosa, ma investigare, porre in prospettiva, inserire nel contesto,
gerarchizzare e controllare le fonti.
La cosiddetta crisi del testimone altro non è,
quindi, che la punta di un iceberg, la parte più appariscente
della crisi generale dell'informazione e, in particolare, del processo
che sta trasformando il giornalista in tecnico massmediologico,
privandolo di quello che è sempre stato il suo compito esistenziale:
testimoniare con lealtà e competenza.
Non è un caso se i termini di giornalismo
e di informazione sono confluiti in quello, assai più ambiguo,
di "comunicazione". Infatti, da alcuni anni è in
atto nei media una rivoluzione filosofica e procedurale i cui effetti
non sono stati ancora valutati pienamente. La comunicazione, come
diceva il mio amico Jean François Revel, altro non è
che l’informazione privata del rapporto morale che dovrebbe
esistere tra chi la fa e chi la riceve. Ed era da questo rapporto
che derivava la fiducia o la sfiducia del pubblico nei confronti
di questo o quel media.
La prima illusione prodotta dal miracolo prometeico
della tecnologia è che l'immagine sia, di per sé,
informazione. Per molti, questo postulato appare già indiscutibile
e potrebbe essere sintetizzato con una frase che il mio amico Andrea
Koksis, regista televisivo formatosi oltrecortina negli anni della
guerra fredda, soleva ripetermi, mentre realizzavamo un reportage
televisivo in Cambogia: "Il testo, se le immagini sono magistrali,
è praticamente superfluo".
In realtà, più l'operatore, il regista
e il montatore sono bravi, più l'immagine può essere
mistificante, se non è sottoposta al processo giornalistico
che ho già citato: investigazione, messa in prospettiva,
collocazione nel contesto, "gerarchizzazione", sintesi.
Per anni, l'informazione, fatta di scoop, di mille
rapide esposizioni di cadaveri, di zoom su episodi cruenti e marginali,
si è rifiutata di allargare lo sguardo, di mettere i fatti
in prospettiva storica, di collocarli nel contesto, di classificarli
tenendo conto di un complesso di fattori non traducibili in trenta
secondi di filmato. Si può aver propinato quotidianamente,
per mesi e mesi, un servizio sullo stesso argomento (vedasi il Kossovo),
scegliendo sempre le immagini più emozionanti, senza che
il pubblico sia stato messo in grado di capire. Ciò accade
sempre più spesso: a volte per imperizia professionale, per
autocensura, per fanatismo ideologico, per disciplina di partito,
più spesso per quella deformazione professionale rappresentata
dal culto per i ritmi serrati, per le immagini impressionanti e
per quello scoopismo ininterrotto che è il padre
della disinformazione-spettacolo e il principe degli indici d’ascolto.
Ricordo che quando Silvio Berlusconi visionò
con me le rare scene di un contrattacco dei khmer bianchi contro
i khmer rossi che avevo girato in Cambogia, emise un giudizio rapido
e sicuro: "Bellissimo, ma i morti dove sono?".
“I morti sono dove arrivano i colpi, qui siamo dove partono”
“E allora l’audience si abbassa” fu la sua conclusione.
La legge dell'informazione-spettacolo è semplice:
"Un reportage, che spiega e fa capire, vale infinitamente meno
di un altro che non spiega e non fa capire, ma che tiene lo spettatore
col fiato sospeso, incollato allo schermo. È il secondo tipo
di "prodotto" (così chiamano i reportages)
che alza gli indici d’ascolto e che fa vincere la gara dell'audience
e quindi quella per l'acquisizione della pubblicità. Corollario:
chi parla all'intelligenza perde, chi parla alle viscere vince.
Il contagio dilaga persino nel sonoro. Ne ebbi una
comica prova già anni fa. Una notte, durante la prima guerra
Iran-Iraq, entrando in una saletta appartata dell'Hotel Shatt el
Arab, a Bassora, colsi un cronista radiofonico che trasmetteva per
telefono il suo servizio "dal fronte". A quindici centimetri
dal ricevitore teneva acceso un registratore dal quale usciva il
crepitio di armi automatiche. Il cronista, sovrapponendo la sua
voce a quel suono, aveva cominciato a declamare per telefono: "Estamos
aqui, en el medio de la batalla...".
Cose antidiluviane, d'altri tempi, di prima che
tutte le televisioni si attrezzassero di rumoristica da cinematografia:
urla, cannonate, fischi e applausi, acclamazioni e pianti, effetti
di repertorio da usare come sottofondo emozionante.
Un altro rischio di questa "informazione" sta negli effetti
narcotizzanti che produce sul raziocinio e sulla coscienza.
Il pubblico si abitua a ricevere l'informazione visiva con lo stesso
spirito con cui assorbe la fiction, cioè in stato di pigrizia
mentale.
Giulio Argan mi confessò un giorno: "Spesso
mi vergogno nel sorprendermi completamente indifferente di fronte
alle immagini di stragi o di delitti. Il fatto è che il mio
cervello, dopo aver incamerato, grazie ai film, migliaia di delitti
immaginari, stenta a riattivarsi e a darsi ragione del fatto che,
in un dato momento, è della realtà che si tratta,
anche se viene rappresentata come un intrattenimento".
L'informazione-spettacolo narcotizza, incoraggia
la passività e l'indifferenza, provoca fenomeni di livellamento
al basso nella scala dei valori. Nelle società, pur intrise
d’individualismo, riesce a provocare un comportamento gregario
e fa accettare acriticamente due verità: quella della realtà
e quella della fantasia. Sono due mondi che vivono in simbiosi,
procedendo in parallelo, come se la verità potesse essere
duplice.
Il business consacra queste "convergenze
parallele". Il risultato, come vedremo, è orwelliano,
perché il passaggio dall'informazione-spettacolo alla manipolazione
dell'utente standardizzato è quasi automatico e produce,
a livello psicologico, quella sindrome da "democrazia livellata"
nella quale, già oltre mezzo secolo fa, Bruno Rizzi intravvedeva
i germi del totalitarismo burocratico, tanto nell'Urss come negli
Usa. Un'idea che, in un certo senso, si ritrova in Alain Woodrow
quando sostiene che "l'abolizione del tempo-riflessione tra
l'avvenimento e la sua divulgazione corrisponde a quella tempestività
di reazioni che caratterizza le dittature nei confronti delle democrazie".
L'eccesso di notizie diventa una specie d’entropia
per l’obesità mentale, una droga che provoca rinuncia
al raziocinio e indifferenza; un'overdose che abitua alla quantità
e disabitua alla qualità. E quando c’è l’adattamento
alla sola quantità, s’intravvede l’anoressia
del libero raziocinio.
Un altro problema è l’incontrollabilità delle
fonti. Non c’è più il cronista in questura,
arriva il comunicato. Il tribunale manda il comunicato, l’azienda
manda il comunicato. Il partito manda il comunicato. Il ministro
manda il comunicato. E tutto va dentro, elettronicamente, nel pre-impaginato
o nel palinsesto avendo come unico filtro quello della politica.
È tutta comunicazione. Non c’è quasi più
l’esercizio della responsabilità. Il giornalismo è
diventato statico, sedentario, senza testimoni, ma imbottito di
aruspici la cui unica arma prudenziale è l’autocensura
politica.
Tutto, come dice Max Gallo, viene insaccato alla rinfusa, livellato,
banalizzato: il terremoto in India con migliaia di morti, i risultati
del calcio, la crisi economica, il gossip smutandato di giornata.
Infine, c’è l’uso indecente del silenzio sui
temi che si vogliono ignorare. La televisione ne è maestra.
Per anni, l'opinione pubblica si è indignata a comando, magari
davanti all'immagine di un poliziotto che usava arbitrariamente
lo sfollagente contro un dimostrante già a terra, ma non
si è indignata per il genocidio di metà della popolazione
cambogiana, per le torture nei lager cubani o nicaraguensi, per
la strage dei cristiani nello Chouf libanese, per i quarantamila
siriani fatti bombardare dal loro presidente, Hassad. Mancavano
i filmati!
Niente immagine, niente informazione, niente indignazione. I governi
lo hanno capito così bene che hanno imparato a controllare
le telecamere, le proprie e le altrui, fin da quando si accendono.
Il giornalista embedded, ad esempio, è l’ultima immagine
dell’agonizzante figura del corrispondente di guerra.
Sono anni che i "Ministeri dell'Informazione" di moltissimi
Paesi giocano un'ambigua partita, soprattutto con le troupes televisive,
all'insegna dell'imbroglio o dei patteggiamenti. Il fatto è
che la comunicazione è diventata uno strumento più
potente che mai in campo politico e un’arma sistematicamente
utilizzata in campo militare e strategico. È così
che i continui miracoli tecnologici che potrebbero permetterci un’informazione
quasi perfetta sono stati utilizzati come strumenti di addomesticamento
della pubblica opinione. Certo, anche in passato i giornali subivano
l’influenza del potere, ma credo che mai come oggi l’informazione,
divenuta pura comunicazione, abbia inseguito obbiettivi opposti
a quelli per i quali era nata.
L'informazione all'italiana
Abbiamo fin qui parlato del passaggio dall’informazione alla
comunicazione, che è un fenomeno mondiale, ma un discorso
a parte va dedicato all’Italia che, anche in questo campo,
rappresenta un’anomalia.
La crisi italiana nel mondo dell’informazione, infatti,
è maturata in due fasi successive, la prima delle quali è
antecedente a quella creata dal cattivo uso della cibernetica. Quest’ultima
si è innestata, come la baionetta sulla canna di un fucile,
su quella precedente, gramsciana e sessantottina.
Il caso del giornalismo italiano è pressoché unico.
È la storia di un servizio di pubblica utilità che,
a solo vent'anni dalla caduta del fascismo, è tornato ad
essere "di regime", questa volta in senso partitocratrico.
Ciò che non si vuole confessare, soprattutto da parte degli
interessati, è che a partire dalla metà degli anni
Sessanta e nel volgere di pochi lustri gli editori furono indotti
prima a rinunciare alla loro autonomia, poi ad accettare il controllo
politico attraverso i cosiddetti direttori editoriali e il sindacato,
infine a cedere drammaticamente le loro aziende, come accadde ai
Mondadori e ai Rizzoli.
È in quegli anni che nelle case editrici compare una nuova
figura, il direttore editoriale, trait d'union tra i media
e i partiti, gaulaites di questi ultimi per la scelta dei
direttori e la selezione del personale con la supervisione del sindacato.
È allora che avviene la grande, silenziosa epurazione ideologica
delle redazioni con l'introduzione di un'intera classe di neo-giornalisti
scelti essenzialmente per estrazione politica. Così, la sola
epurazione mai riuscita in Italia avvenne nel mondo dei media, perchè
trovò d'accordo i due maggiori partiti del Paese.
È la stagione in cui a Roma viene rivoluzionariamente impedito
a Luigi Barzini di assumere la direzione del Messaggero,
a Genova il liberale Umberto Cavassa viene estromesso dalla direzione
del Secolo XIX, mentre al Corriere Mercantile
viene cacciato il direttore conservatore Oreste Mosca, reo di “aver
assunto fascisti come Maurizio Costanzo” (che dopo l’affare
P2 si convertirà rapidamente alla sinistra)…
Fu allora che l’editore Monti fu indotto da Fanfani a disfarsi
del celebre direttore liberale de La Nazione di Firenze,
Enrico Mattei e del suo caporedattore Dino Passetti e dovette intervenire
anche ne Il Resto del Carlino, dove, allontanato il famoso
Domenico Bartoli, venne chiamato ad assumere la direzione Enzo Biagi,
futuro garante della sinistra nell’editoria italiana. Si adeguarono
anche gli Agnelli dando il benservito al mitico Giulio De Benedetti,
direttore de La Stampa, (da allora divenuta rigorosamente
conforme).
Fu allora che nel settimanale Il Tempo l’editore
Palazzi, dopo un’interminabile serie di scioperi ricattatori,
dovette licenziare dalla direzione il celebre Arturo Tofanelli,
il caporedattore Pierangelo Salvini (Premio Viareggio) e sostituirli
col comunista doc Nicola Cattedra.
Fu allora che ad Epoca, il miglior settimanale d’Europa
dove ho lavorato per anni, venne epurato il direttore Nando Sampietro,
nonostante il successo internazionale della rivista e le 600mila
copie vendute settimanalmente. L’utile annuale del giornale,
di due miliardi di lire di allora, venne riversato nel neonato settimanale
di sinistra, Panorama, in pesante deficit.
Fu allora che al Corriere della Sera venne estromesso
Montanelli, fiore all’occhiello del quotidiano, che si salvò
fondando un suo giornale, nel quale ripararono i profughi della
grande epurazione, dopo che i contestatori avevano invaso le piazze
al grido di “Epoca e Corriere, giornali del potere”.
Fu allora che l’atto di indipendenza di Montanelli fu punito
con la gambizzazione e con l’assalto alla tipografia del nuovo
giornale, durante il quale, ignorati dalla questura, fummo salvati
dalla reazione dei tipografi.
A quel punto - a mutazione forzata avvenuta - il sindacato provvide
ad imporre le sue scelte nelle nuove assunzioni, trasformando il
professionista dell'informazione in un disciplinato impiegato di
lusso, selezionato politicamente e poi reso sindacalmente illicenziabile.
È a quel punto che si forma la corporazione dei volontari
della livrea, composta al 75% dai nuovi giornalisti lottizzati,
dopo un arruolamento di massa paragonabile solo a quello degli intellettuali
fascisti passati a Togliatti nel dopoguerra. Una lobby che si muove
compatta sotto lo sguardo vigile dei referenti politici ai quali
deve la sistemazione.
Da allora e per vent’anni non c'è stata assunzione
che non fosse "politica" (o - nel migliore dei casi -
nepotistico-politica, come dimostra il carattere ereditario della
professione nei giornali e nella televisione). Non c'è stata
direzione o investitura importante che non fosse assegnata alle
nuove leve prodotte dalle fabbriche del professionismo omologato:
L’Espresso, Panorama, La Repubblica, o di fogli militanti
come Potere Operaio, Il Manifesto, et similia.
All'interno di questa realtà da “comprati e venduti”,
per dirla con Pansa, la categoria si è decomposta. Cessata
la grande scuola cronistica (a che serve imparare se si è
illicenziabili?), livellati al basso i quadri redazionali, con le
stesse tecniche con le quali si era decapitata la scuola, la snaturazione
dei media è proseguita senza sosta, aggravandosi quando le
nuove scuole di giornalismo, specchietto per le allodole delle Università,
produssero una massa enorme di aspiranti al posto nei media, proprio
mentre nei giornali il processo informatico creava un crescente
surplus di personale. Il risultato è stato un esercito di
avventizi delle redazioni, pagati meno delle domestiche, questuanti
di giornale in giornale, ricattabili e facilmente riconducibili
all’obbedienza politica.
Il livellamento al basso del giornalismo provocava inevitabilmente
lo stesso fenomeno nel pubblico, sicché si può dire
senza timore di smentita che è stato il giornalismo addomesticato
a produrre quel "consumatore standardizzato" che diventerà
il prototipo del cittadino teledipendente.
Secondo un rapporto del Censis, i giornalisti, gli editori ed i
cosiddetti maghi della comunicazione non sanno più fare il
loro mestiere. Sono superficiali, cercano notizie ad effetto senza
peraltro controllarle, non approfondiscono, spettacolarizzano secondo
il malvezzo televisivo e rendono tutto inconsistente e banale. Col
risultato di non cogliere il senso degli eventi, cioè di
disinformare. "La grande comunicazione di massa ha probabilmente
superato le frontiere, anche quelle estreme, della dismisura e del
rumore e, nell'illusione di essere ormai in grado di dire tutto,
ha finito per mancare l'interpretazione di un sociale di grande
intensità... La stessa comunicazione avverte il disagio di
non sapere più a chi sta parlando. L'attenzione esclusiva
ed ossessiva al dato puramente quantitativo del bacino d’utenza,
l'anonimato e l'indistinzione di un pubblico di cui si sono perduti
i riferimenti reali, l'illusione che l'odierna complessità
possa essere colta e persino spiegata attraverso il ricorso agli
ormai onnipresenti sondaggi, rappresentano altrettanti segnali di
una situazione di profondo scollamento tra i canali comunicativi
e il resto della società". Secondo i ricercatori dello
stesso Istituto, è "con questo sistema informativo che
la democrazia italiana post-fascista è arrivata al capolinea".
E veniamo alla seconda involuzione.
Sulla crisi dell’informazione nata dalla monocultura della
rivoluzione sessantottina si è innestata, senza soluzione
di continuità, la seconda fase, contraddistinta da tre fenomeni:
l’effetto delle prepotenti leggi del mercato, il fragoroso
irrompere nell’editoria dell’informatica e la vittoria
elettorale imprevista del centro-destra.
1) Il mercato, sempre più globale, metteva in risalto un
fenomeno crescente: i deficit dell’editoria venivano pagati
col denaro pubblico. In nome di un malinteso spirito libertario,
qualsiasi media rappresentante di una formazione politica veniva
sovvenzionato. Inoltre, il problema dei bilanci creava la supremazia
della pubblicità, come ossigeno per gli introiti, anche a
compensazione del continuo calo delle vendite.
Le regole della comunicazione pubblicitaria soppiantavano quelle
dell’informazione e nei media diventava difficile distinguere
il testo redazionale da quello pubblicitario, o subliminalmente
promozionale.
2) L’avvento del computer e delle tecnologie più
raffinate, anziché ampliare lo spazio di libertà del
giornalista lo restringeva: il grande insaccato telematico rendeva
superflui i testimoni e i competenti e omogeneizzava la produzione,
favorendo il controllo sui contenuti.
3) L’inaspettata vittoria del centrodestra creava, con l’avvento
di Berlusconi e dei suoi nuovi media, un duopolio dell’informazione
che, anziché risolvere il problema della libera informazione,
lo complicava, tanto più che la parte politica perdente,
la sinistra, continuava ad avere nei media quel 75% di giornalisti
reclutati negli anni del consociativismo ai quali Berlusconi contrapponeva
una nuova compagine di “schierati”, col risultato inevitabile
che sempre più la categoria s’imbottiva di “comprati
e venduti” e lo scontro politico sembrava esonerare tutti
dalla questione deontologica. Sul piano economico, la guerra per
la supremazia o per la sopravvivenza, combattuta all’insegna
dell’audience, cioè del panem et circenses,
finiva per essere combattuta attraverso una produzione che accomunava
le opposte schiere, una produzione becera, triviale, smodatamente
aggressiva e impudicamente servile nei confronti dei signori della
guerra politica.
Comunicazione: paguro della politica
È giunto il momento di chiederci - in conclusione - perchè
il giornalismo italiano rappresenti ormai un elemento determinante
nel drammatico degrado dell'Italia, della sua vita politica e della
sua cultura.
È una domanda alla quale possono dare una risposta solo
coloro che non fanno parte del mondo massmediologico, visto che
la lobby in livrea la elude da quarant’anni, spesso con la
motivazione inconfessata del “tengo famiglia”.
Una domanda ignorata sostanzialmente anche dal mondo politico
che non intende rinunciare ai suoi diritti di proprietario occulto
della maison, e neppure presa in considerazione da un mondo
industriale e finanziario che spesso si trova perfettamente a suo
agio nel ruolo umbratile di tenutario.
Secondo un rapporto dell'Unesco di qualche tempo fa, l'Italia,
in fatto d’attendibilità dell'informazione, si trova
ormai al 41° posto, prima del Gambia ma dopo la Guinea. E secondo
un'indagine della Freedom House, il nostro Paese “sta uscendo
dal gruppo degli stati a piena libertà di stampa".
Dati come questi dovrebbero risuonare come campane a martello,
ma i cerusici chiamati al capezzale del malato, nel loro duplice
ruolo d’informatori e d’esperti d’informazione,
si limitano a dubitare, sbadigliando, delle diagnosi emesse all'estero.
Il giornalista, in quanto testimone oculare dei fatti, è
stato quasi del tutto abolito, cancellato, adibito al lavoro di
esecutore pavlovianamente addestrato.
Nel volgere di pochi anni, i media sono stati privati dei loro
occhi (i giornalisti che andavano a vedere i fatti) e, con l'alibi
del risparmio e di un malinteso sfruttamento delle nuove tecnologie,
sono stati trasformati in strumenti ciechi, in terminali di agenzie
e di banche dati che consentono di creare, a basso costo e in tempi
sempre più accelerati, una realtà surreale, omogeneizzata,
pre-controllata, artefatta fino ai limiti del virtualismo. È
per questo che al pubblico i giornali, benché schierati su
opposti fronti, appaiono ormai metodologicamente uguali.
L'agenzia, la banca dati, l'informazione-spettacolo delle televisioni
e il feroce bizantinismo politico, anima dei dibattiti, sono diventati
la materia prima del giornalismo italiano: materia sempre più
conforme, prodotta in serie, esente dal controllo delle fonti perchè
de-responsabilizzatata (in caso di smentita di una notizia, la colpa
è dell'agenzia, elevata al rango di fonte, o del “malinteso”
e la smentita appare nel trafiletto o nello spot del giorno dopo,
quando non la si neghi spudoratamente, in nome della libertà
di stampa).
I media non offrono più il prodotto delle proprie ricerche,
ma il digest di quanto propalato da terzi: portavoce politici, uffici
stampa, messaggeri computerizzati, cottimisti del copia e incolla.
Sono scomparsi il grande reportage, l'inchiesta sociale. L'investigazione
giornalistica sopravvive solo come affannosa ricerca nelle pattumiere
del gossip. Di fatto, è scomparsa l'informazione, a beneficio
di un suo surrogato: la comunicazione, intesa come spot politico
o commerciale.
La comunicazione - così come ci viene offerta oggi dai giornali
e dalla Tv - è l'anello di congiunzione tra la propaganda
goebelsiana, i metodi subliminali della moderna pubblicità
e gli straordinari mezzi tecnologici, dalla telefonia all'informatica,
usate con estremo cinismo. Era inevitabile che la pubblica opinione
se n’accorgesse e finisse col rifugiarsi in quella che definirei
la comunicazione dei bassi istinti. Dopo mezzo secolo di propedeutica,
il consumatore di media è passato senza soluzione di continuità
dalla "casa del popolo" alla "casa degli italiani"
(intesa come supermercato) e Mimì metallurgico è diventato,
senza cambiare indirizzi politici, frequentazioni e mentalità,
il più famelico consumatore di televisione commerciale.
I giornali non fanno che offrire al mattino il menù compilato
dalla televisione la sera precedente. Ne consegue che le pagine
dedicate all'estero sono approssimative e banalizzate, la cultura
è livellata al basso e spesso assimilata allo spettacolo,
la cronaca è ridotta ad un cocktail di piccoli scoop, infarcita
di titoli ad effetto. In compenso, la tragicommedia quotidiana della
politica interna e del costume dilaga in una fantasmagoria triviale
e senza limiti. A commentare gli eventi, al posto degli esperti,
sono chiamati quei giullari del giornalismo e del varietà
che le televisioni pubbliche e private, rendono celebri, per ordine
dei loro padrini politici, in base al numero delle comparsate. I
dibattiti, anche sui giornali, sono semplici rappresentazioni teatrali
nelle quali ogni ospite recita la parte assegnatagli. E il pubblico
diserta con crescente sfiducia, nonostante i media assomiglino ormai
ad un hot dog. Nella stampa, il perfetto connubio tra non-editori
e non-direttori garantisce, con la collaborazione dei non-giornalisti,
la diffusione dei non-giornali presso i non-lettori, grazie ad un
nuovo ritrovato della scienza: il gadget.
Secondo i dati Istat, la disistima per gli organi d’informazione
accomuna ormai il 70 per cento degli italiani, ma ciò non
impedisce a molti di questi lettori disgustati, di acquistare una
videocassetta, un libro, una bottiglietta di profumo o una confezione
di profilattici, anche se ad essi è allegato un giornale.
Un giornale acquistato per apatica consuetudine o per mancanza d’alternative.
Spesso il giornale è il gadget del suo gadget.
A questo punto viene da chiedersi: com’è possibile
che un'intera categoria, quella dei giornalisti, abbia accettato
senza battere ciglio che la loro professione venisse trasformata
in qualcosa che ricorda quella dei venditori di falsi elisir, nelle
fiere dei secoli passati?
A questa domanda, i santoni del giornalismo, i complici di questo
degrado, rispondono all'unisono con una serie di motivazioni tecniche:
l'invadenza della televisione, l'inevitabile trionfo dell'informatica,
l'abbassamento del livello d’attenzione da parte del lettore...
Nessuno parla di giornali mal fatti, di rinuncia alle regole deontologiche,
di abiura all'indipendenza morale e intellettuale. Ne parlano solo
i lettori.
Si scopre così che non è vero che la crisi dei media
italiani é semplicemente parte di una crisi universale. La
nostra è una crisi con caratteristiche strettamente nazionali
ed è antecedente al fenomeno dello strapotere televisivo.
È una crisi che dura da quarant'anni e non è di natura
tecnologica, ma politica e soprattutto morale. Essa coincide con
la morte del giornalista spectateur engagé, per
dirla con Aron, e col trionfo del giornalista militante, sottoprodotto
dell'intellettuale organico, docile strumento di poteri vecchi e
nuovi. Gli osservatori stranieri, non essendo parte in causa, ne
hanno parlato chiaramente, come J.F. Revel, ne "La Connaissance
inutile" quando osserva: "È stato il fideismo
politico ad asservire l'informazione. Poi, nel peggiore dei casi,
è stata la dilagante corruttibilità".
Così, quando le ideologie sono morte, la complicità
ideologica si è trasformata in solidarietà corporativa
della casta. Così il giornalismo dichiaratamente arruolato
resiste, servendo il referente col quale è debitore e barando
senza esitazioni.
Oggi, dovremmo chiederci da quale rivoluzione potrà avere
inizio la riconquista della dignità da parte di chi lavora
nell'informazione e il diritto ad essere informata, da parte della
pubblica opinione. Dovremmo cominciare a chiederci come il sistema
impedisca ogni iniziativa editoriale che rifiuti il padrinato politico.
Per quale motivo certe banche facciano da supporto incontrollato
a certi giornali e per conto di chi. Perché sia consentito
a grandi agenzie pubblicitarie di decidere con le inserzioni quali
giornali far sopravvivere e quali condannare al capestro. In che
modo lo Stato, con provvidenze abnormi, continui il suo controllo
indiretto sui media. Come mai certe pubblicazioni politiche "di
area", vengano finanziate con la pubblicità dell'industria
di Stato, controllata tuttora da proconsoli di partito. A che titolo
la stampa di partito debba avere provvidenze ultra miliardarie che
le consentono iniziative sproporzionate alle tirature e concorrenziali
con quelle di giornali che pagano di tasca propria. Come mai qualunque
privato deciso ad investire in nuovi media venga scoraggiato, quando
non minacciato nei suoi interessi, magari attraverso gli istituti
di credito, finché non trova un garante di partito. Perché
in nome del servizio pubblico si continui ad usare la Rai come campo
di battaglia per lottizzatori di partito e nessuno chieda il ripristino
delle assunzioni per concorso.
A questo proposito, faccio notare il ridicolo di quei giornalisti
Rai che, collocati dai partiti nel servizio pubblico come teste
di ponte, si appellano alla libertà d’informazione
in nome di un’indipendenza professionale mai dimostrata deontologicamente.
Dovremmo anche chiederci che cosa fa il sindacato giornalisti,
protagonista indiscusso dell’asservimento della categoria
ai partiti e del suicidio della stessa, mentre dilaga un abusivato
che equipara i giovani giornalisti alle domestiche ad ore. Che cosa
fa di fronte ad un’editoria che comprime gli spazi del professionismo
a favore di un precariato reso istituzionale e che fa pagare i suoi
vecchi cedimenti nel compromesso politico alla nuova generazione
dei comunicatori, rendendo istituzionale l'idea che il giornalismo
non ha più nulla a che vedere con la testimonianza diretta
e col servizio alla pubblica opinione.
Per non essere accusato d’eccessivo pessimismo da chi forse
poco conosce la realtà che sta dietro le quinte della comunicazione,
vorrei concludere nel segno della speranza per un forte rinnovamento,
anche se oggi la comunicazione è il Pagurus bernhardus
della politica e la politica sappiamo tutti in che situazione è.
Forse è un po’ ingeneroso addossare alla categoria
dei giornalisti tutta la colpa per una resa incondizionata alle
ideologie o al denaro. Anche il ruolo del corruttore è tutt’altro
che irrilevante [1]. Faticoso, quindi, ma non impossibile
immaginare un cambiamento.
Forse la liberazione ci arriverà proprio dalla cibernetica,
quando la nuova generazione di giovani avrà imparato a selezionare
da sola le notizie nel calderone di Internet, nella stampa estera
e nelle tante fonti oggi disponibili, ma ci vorrà del tempo
e, probabilmente, un cambio di generazione. Per adesso il gran poppatoio
è la comunicazione, specialmente televisiva, quella che nutre
tanta parte della popolazione, conservandola nell’inconsapevolezza
e favorendone la faziosità.
Note:
1 Per un più approfondito esame del tema,
vedi: Lucio Lami, Giornalismo
all'italiana, Ed. Ares - Milano.