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Riprendiamoci la democrazia

Cinque esortazioni per gli italiani afflitti dal nuovo regime

 

1 - Riprendiamoci la democrazia

Benché sia proibito dirlo, pena le rampogne dei gerarchi, l'Italia è caduta nuovamente sotto un regime. Non una dittatura, ma – come direbbero in America Latina, dove se ne intendono – una "dicta-blanda", un regime partitocratico le cui fondamenta vennero gettate fin dal dopo-guerra e che ora si è consolidato diventando sempre più rigido, a mano a mano che perdeva rispetto e credibilità.

A chi non osa ammettere questa evidenza, va posta subito una domanda. È o non è, questo, un regime, cioè – come spiega il dizionario – "un sistema autoritario che non tiene conto dei diritti dei cittadini?".

È indiscutibilmente un regime quello che per scelta abolisce il confronto tra governo e opposizione, facendo sì che il primo e la seconda si associno perennemente, creando un'oligarchia di potere.

È indiscutibilmente un regime quello che ci priva della certezza del diritto, sia con un'overdose di leggi che rendono inapplicabile ogni indirizzo, sia con un'organizzazione dei tribunali che rende impossibile avere giustizia in un arco di tempo decente, sia con un sistema giudiziario che manda impunito il 75 per cento dei delitti.

È indiscutibilmente un regime quello che ha distrutto la scuola, trasformandola in un'industria passiva per il collocamento dei precari e in un esamificio che produce giovani indottrinati politicamente ma impreparati al lavoro e alla vita di cittadino.
È indiscutibilmente un regime quello che controlla il 99 per cento dei mezzi di informazione, sia direttamente, sia attraverso i potentati economici consociati, e che se ne serve per creare con tecniche subliminali il consenso che ha perso sul piano razionale e ideologico.

E poiché definiamo il regime "partitocratico" va ribadito che per partitocrazia si intende ancora una volta, come spiega Gaetano Quagliariello, "un sistema che con il consociativismo nega la regola della maggioranza nel dirimere il conflitto politico".
Dati alla mano, l'Italia non è un Paese democratico.

Naturalmente gli italiani sono liberi di tifare per la Juventus o per il Milan, possono mugugnare in pubblico e in privato, possono viaggiare dentro e fuori dai confini. Ma se decidono di non finanziare i partiti, il governo partitocratico non ne terrà conto. Se votano perché non venga trattenuta dallo stipendio una quota a favore dei sindacati, l'oligarchia cestinerà il referendum. Se chiedono che le tasse servano a fornire servizi, si sentiranno rispondere che l'apparato politico costa. L'ultima istituzione democratica sopravvissuta in Italia, il referendum popolare, è sottoposta a diffamazioni e a manomissioni continue affinché nella fattoria degli animali tutti accettino spontaneamente di privarsene.

I partiti sono da tempo diventati delle società d'affari che gestiscono, al di fuori di ogni controllo, immensi interessi economici nel commercio, nelle banche, nelle imprese di Stato e private. Nella gara che li contrappone, come gangs in perenne duello per il controllo del territorio (cioè per non perdere seggi, posti dirigenziali, poltrone nella miriade di enti creati appunto per generare la nuova classe burocratica), si sono dotati di palazzi, di strutture faraoniche, di quadri degni di un'industria, di budgets pubblicitari, di fondi neri e per alimentare tutto questo hanno creato l'impresa di Stato, in perenne passivo, favorito l'impresa consociata politicamente (che è privata, ma paga tangenti in cambio di appalti e di cassa d'integrazione) e il sistema mafioso per cui se si vuole un posto di lavoro si deve avere un santo nel partito.

Tutto questo non è cominciato negli anni di Tangentopoli e neppure in quelli del CAF, come credono gli ingenui, ma fin dai tempi della Resistenza e della Costituente.

Ai tempi della lotta partigiana, l'esproprio e il sequestro di beni e denaro, era legalizzato dalle necessità della guerra. A conflitto finito, invalse presto il principio che anche rubare per fini politici, o per partito, non era peccato. Mattei, smessi gli abiti di partigiano e chiamato a liquidare l'Eni, anziché demolire il carrozzone lo rifondò in nome di questi principî. I partiti li pagava tutti, vantandosene. Lo Stato non poté far nulla: i costituenti lo avevano voluto così, impotente, imbrigliato dalla legge elettorale proporzionale. Chi vinceva le elezioni non governava se non scendeva a patti con l'opposizione. La guerra politica diventava guerra di quartiere e il costo delle armi saliva alle stelle.

Nel 1953 fu proposta una legge per modificare il sistema del voto proporzionale. Fu subito definita "legge truffa" e affondata. Ci sarebbero voluti vent'anni perché si riprendesse in esame il problema. Il Parlamento intanto era diventato una multiproprietà dove i partiti avevano diritto alla loro fetta, al loro lotto. La fetta mutava, ad ogni elezione, ma non il club dei proprietari. Così il voto divenne assolutamente inutile, provocando solo variazioni azionarie all'interno del club. La stessa opposizione otteneva, in percentuale crescente, seggi parlamentari, poltrone nelle commissioni, posti paragovernativi che consentivano il nepotismo politico e l'incetta di voti di scambio. Fu presto chiaro che anche rinnovando tutto il Parlamento non si rinnovava nulla, così come non si è rinnovato nulla con Mani Pulite. Come la mafia, la partitocrazia sopravvive ai suoi caduti, ai pentiti, ai condannati. Il sistema si riproduce per partenogenesi, e continuerà a farlo finché non si muteranno radicalmente le regole della pseudo democrazia nata dalla Resistenza.

"Occorre ricordare che la corruzione affonda le sue radici non in una misteriosa epidemia del malaffare, ma in uno sviluppo consequenziale del sistema dei partiti di massa ed in scelte istituzionali sbagliate" (Quagliariello).

Da Mattei a La Pira, passando per i leaders come Togliatti e Moro, la creazione dell'apparato economico statale e statalista italiano e di un sistema di governo catto-comunista fondamentalmente antidemocratico trae origine dall'ideologia espressa dai "vincitori" della guerra civile riuniti sotto l'arco costituzionale. Un'ideologia che consente all'Italia di rappresentare ancor oggi, con Cuba, l'ultimo Paese dell'Est fuori dall'Est dopo la caduta del Muro.

Questi drammatici epiloghi vennero compresi da spiriti liberi fin dal sorgere della Prima Repubblica. Ma la voce di questi profeti non arrivò mai ai media, alle scuole, alla gente, perché il sistema, in fatto di informazione, era già sotto il controllo del terrorismo culturale gramsciano. Fin dall'inizio degli anni Sessanta, un giurista come Giuseppe Maranini aveva constatato: "Le collusioni interpartitiche al di sopra dello schema governo – opposizione rendono ancora più inafferrabile e incomprensibile la realtà profonda del gioco politico, falsando ogni onesto dinamismo della lotta. A loro volta i partiti, pressati dalle enormi esigenze finanziarie della conquista del potere, soccombono a inconfessabili necessità; e dietro le centrali partitiche, diventate agenzie di affari, altri ancora più inaccettabili centri di potere operano fuori da ogni immaginabile controllo e da ogni responsabilità. Nel frattempo la classe di governo, sottoposta dai caporali di partito a una inesorabile selezione alla rovescia, in occasione della compilazione delle liste dei candidati, si riduce a un livello sempre più basso". Un discorso analogo andrebbe fatto oggi per i sindacati, veri governanti non previsti dalla Costituzione ed esponenti di spicco del clan partitocratico.

Era il 1958 quando già Maranini scriveva: "Si tratti di fare una legge per spartire il collocamento delle domestiche fra organizzazioni rosse e nere, o di violare la Costituzione attribuendo efficacia erga omnes ai contratti collettivi di lavoro stipulati da oligarchie sindacali di vario colore, l'accordo è facile. Oligarchie sindacali e oligarchie partitiche strettamente collegate, investite di formidabili poteri di fatto, ogni giorno arricchite di nuovi privilegi, costituiscono la vera sostanza del regime. Partiti e sindacati assolvono funzioni di importanza vitale nella nostra vita pubblica: ma quei controlli che la Costituzione molto timidamente adombra sia nei confronti dei partiti sia nei confronti dei sindacati, esigendo che funzionino con metodo democratico, fino ad oggi sono rimasti nel regno della utopia e trovano un fronte compatto ogni volta che un democratico sincero ne domanda l'attuazione".

Bei tempi quelli di Maranini: oggi gli uomini del partito-Stato non si limitano a concedersi quelle immunità, ma irridono agli elettori e ad ogni instaurazione di nuove tasse fanno corrispondere un loro aumento di stipendio o un nuovo privilegio concesso alla casta.

Già nel dopoguerra, intellettuali della statura di Ernesto Rossi chiedevano leggi che: 1) riducessero il fabbisogno finanziario dei partiti e stabilissero un plafond nelle spese dei candidati. 2) Rendessero pubblici i bilanci dei partiti. Altri chiedevano norme che separassero le carriere del partito da quelle dei parlamentari. Nulla.

Il qualunquismo di Giannini fu il primo tentativo di organizzare la pubblica opinione contro il nuovo regime. Il vulcanico giornalista anticipò di mezzo secolo la diagnosi dei sofisticati politologi di oggi che vedono nell'attuale regime il prolungamento sotto altre sembianze di quello fascista. "Noi non abbiamo bisogno d'altro che di essere amministrati e quindi ci occorrono degli amministratori, non dei politici. Ci vogliono strade, mezzi di trasporto, una moneta modesta ma seria, una politica rispettabile che ci renda sicuri…liberandoci dal timore di essere spogliati da nuovi brigantaggi di Stato-partito". Ma il regime era già forte e non potendo bollare un fuoriuscito come Giannini di fascismo, come faceva con chiunque denunciasse la banda dei nuovi padroni, lo accusò di "qualunquismo". E da allora l'aggettivo, nella vulgata della sinistra e quindi universale, divenne dispregiativo. Ci sarebbero voluti più di trent'anni prima che il tentativo di dar voce a un liberalismo popolare venisse ripreso con le battaglie referendarie di Pannella.
La pubblica opinione cominciò ben presto ad allontanarsi dal mondo della partitocrazia fino a farne l'oggetto di rassegnata derisione. Ma, tenuta nell'ignoranza, sogna talvolta la soluzione miracolosa, il taumaturgo, l'uomo forte, o – nel caso dei leghisti – il leader che porti le vittime del regime non alla conquista del Paese, ma a separarsi da esso.

Tutte queste ricette suicide fanno ovviamente il gioco del regime che infatti si rafforza ponendosi sempre più a viso aperto contro i cittadini. Per un breve periodo, la maggioranza degli italiani ha creduto di vedere in Berlusconi, nel suo partito virtuale e nella sua coalizione la forza capace di ribaltare l'attuale soluzione. Ma nel volgere di pochi mesi anche Berlusconi ha accettato di misurarsi col sistema accettandone le regole col trucco, i compromessi, accontentandosi "di fare il fattibile" quando invece si trattava di fare una rivoluzione.

Sull'altare dell'ennesimo compromesso è così rinato l'ennesimo consociativismo, l'accettazione delle regole stabilite dalla mafia politica. E dire che già nel 1957 Ignazio Silone aveva scritto: "Finché il nostro meccanismo democratico sarà di fatto articolato principalmente sui partiti e finché i partiti saranno dei carrozzoni rimorchiati dagli apparati, il carattere democratico della Repubblica rimarrà forzatamente limitato, per non dire lettera morta. Ma l'errore più nefasto è il credere alla fatalità di tale situazione".

Ecco il punto dolente: da quarant'anni il popolo accetta tutto, con fatalismo, il popolo dell'eterno otto settembre. E invece assieme alla Costituzione e al sistema elettorale sono proprio i partiti che vanno riportati alla loro perduta funzione di catalizzatori di uomini, di ideali e di programmi. Occorre distruggere il patito – Stato per ridare vita ai partiti dei cittadini. E non si può chiedere che sia il regime ad autodistruggersi. Il regime non accetta neppure, come si è visto, una nuova Costituzione. Offre le bicamerali ed altri mercatini del genere. Solo una rivoluzione dell'opinione pubblica può ridarci la democrazia.

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